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Il castello d'Otranto
 
Il castello d'Otranto 2016-12-17 07:03:57 viducoli
Voto medio 
 
2.8
Stile 
 
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Contenuto 
 
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viducoli Opinione inserita da viducoli    17 Dicembre, 2016
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La nascita del romanzo come anestetico

Circa un anno fa ho recensito 'L’italiano', di Ann Radcliffe, uno dei prototipi del romanzo gotico, scritto verso la fine del XVIII secolo. Ora mi ritrovo ad aver letto, nella stessa benemerita – ma ahimè scomparsa – collana I Classici classici di Frassinelli, il vero antesignano di questo genere di romanzi, pubblicato oltre trent’anni prima: 'Il castello di Otranto' di Horace Walpole.
Walpole, che apparteneva alla grande nobiltà inglese, scrisse il suo romanzo più famoso nel 1764, all’età di 47 anni, quando ormai da 10 viveva nella sua residenza di Strawberry Hill, nei pressi di Londra, e stava trasformandola in un bizzarro maniero neogotico.
La Gran Bretagna, il paese in cui il processo di industrializzazione e di costruzione dei cardini fondativi della società borghese era più avanzato, stava donando alla letteratura mondiale uno straordinario strumento culturale: la novel, il romanzo borghese moderno. Nell’arco della quarantina d’anni immediatamente precedenti il romanzo di Walpole vengono pubblicati alcuni dei capolavori assoluti della narrativa di ogni tempo: il 'Robinson Crusoe' di Defoe è del 1719; Richardson pubblica 'Pamela' nel 1740, Fielding il 'Tom Jones' nel 1749, ed il filotto si completa nel 1760, con la pubblicazione del primo volume del 'Tristram Shandy' di Sterne. A questa incredibile sequenza mi permetto di aggiungere un’opera maledetta, a lungo messa all’indice per il suo contenuto sinceramente pornografico, ma che a mio avviso occupa anch’essa un posto centrale nell’evoluzione del romanzo borghese: 'Fanny Hill' di John Cleland, che è del 1748.
Al cospetto di questi capolavori, 'Il castello di Otranto' è sicuramente un’opera minore, figlia di un autore che si può ben definire un dilettante, dotato di uno spessore narrativo che oggettivamente rimane di parecchie volte al di sotto di quello degli autori sopra citati: eppure questo piccolo romanzo, pieno di ingenuità, assurdo nella trama, che induce spesso il lettore contemporaneo al sorriso piuttosto che al terrore, occupa un suo spazio preciso nella storia della letteratura proprio perché è stato il capostipite non solo di un genere letterario, ma anche e soprattutto – a mio avviso – di un preciso modo di concepire la letteratura come strumento d’evasione, perché nasce proprio per reazione alla funzione sociale svolta dal nascente romanzo borghese.
I grandi romanzi sopra citati hanno infatti come presupposto – con la straordinaria eccezione del 'Tristram Shandy', su cui tornerò – l’idea che la letteratura debba raccontare la realtà: tutte le storie che narrano sono ambientate nella contemporaneità, i protagonisti sono inglesi e le loro vicende sono – anche se in alcuni casi straordinarie – verosimili e calate nella società del tempo. Certo, ciascun autore accentua alcuni aspetti della realtà piuttosto che altri, a seconda del proprio modo di percepirla e del messaggio che intende trasmettere, ma tutti sono accomunati dall’attenzione – tipica del valore dato alla concretezza dalla nascente società borghese – all’epica del reale. Come detto fa eccezione il grande 'irregolare' Sterne, che scardina la forma, la struttura del romanzo realista, utilizzandone però parodisticamente le stesse basi, come farà, su di un altro piano, anche l’altro irregolare, Cleland con il suo 'Shamela'. La base fondativa stessa della novel è la descrizione della realtà, il rifiuto ed il superamento dell’elemento fantastico e cavalleresco che caratterizza invece il romance medievale.
Secondo me Walpole compie essenzialmente ne Il castello di Otranto un’operazione di restaurazione, scrivendo un’opera ambientata nel medioevo, in un paese esotico (l’Italia del sud), nel quale il soprannaturale gioca un ruolo essenziale per determinare la vicenda e i destini dei protagonisti. Resuscita, di fatto, il vestito del romance cavalleresco, calcando la mano sull’elemento misterioso e soprannaturale nella speranza, avveratasi, che questi elementi avrebbero attratto il pubblico. È talmente consapevole di non aderire allo spirito del tempo che nella prefazione alla prima edizione dell’opera le attribuisce origini italiane e medievali. Inventa una dettagliata storia del romanzo, che sarebbe stato stampato a Napoli (in caratteri gotici…) nel 1529 e rinvenuto nella biblioteca di un’antica famiglia inglese: la sua scrittura sarebbe avvenuta tra l’XI e il XIII secolo, e lui ne sarebbe soltanto il traduttore. La prefazione è estremamente interessante anche perché Walpole si lascia scappare, sia pure sempre nell’ambito della finzione dell’opera antica, le vere ragioni per cui ha scritto il romanzo. Dice infatti: ”Allora in Italia le lettere erano in pieno rigoglio e contribuivano a dissolvere il regno della superstizione, all’epoca così vigorosamente attaccata dai riformatori. Non è improbabile che un abile sacerdote abbia cercato di volgere contro gli innovatori le loro stesse armi, e si sia valso della propria abilità di scrittore per rafforzare il popolino negli errori e nelle superstizioni antiche. […] Un’opera come questa ha più probabilità di soggiogare cento menti incolte che non la metà dei libri di controversie scritti dai tempi di Lutero sino ad oggi”. Questo passo rivela a mio avviso come Walpole avesse una piena coscienza del carattere d’evasione del suo romanzo, rappresentando inoltre una lucida analisi della funzione soggiogatrice, anestetica, di questo genere di letteratura, analisi validissima anche oggi. Neppure troppo implicitamente, Walpole ci dice che il suo romanzo nasce come reazione alla modernità.
Nella prefazione alla seconda edizione, visto il successo del libro, l’autore si svela e precisa il suo pensiero, dicendoci che il suo intento è stato quello di fondere in una sola opera il romanzo antico e quello moderno, quello in cui ”tutto era immaginazione e improbabilità” e quello in cui ”si cerca sempre, talvolta con successo, di riprodurre la natura”, nel quale ”le grandi risorse della fantasia sono state arginate da una rigida aderenza alla vita quotidiana”. Leggendo il romanzo, tuttavia, si ha la netta sensazione che questa fusione sia avvenuta utilizzando a piene mani la materia prima del romanzo antico, e solo poche briciole di modernità.
In questa seconda prefazione Walpole a mio avviso si allarga un po’, paragonando la sua opera a quella di Shakespeare e polemizzando con Voltaire. Lo fa comunque a proposito di una questione non secondaria in letteratura, vale a dire la compresenza, in una stessa opera, di toni tragici e comici. Uno dei tratti caratterizzanti 'Il castello di Otranto', infatti, è il ruolo comico attribuito ai domestici e ai famigli dei protagonisti: nei dialoghi in cui compaiono, interrogati dai loro padroni a proposito di ciò che sanno o hanno visto, si rivelano immancabilmente impacciati e prolissi: questi dialoghi fanno da contrappeso al tono aulico ed ufficiale che i personaggi principali usano tra loro, all’inverosimiglianza della maggior parte dei fatti narrati, e costituiscono probabilmente, nelle intenzioni di Walpole, un elemento concreto di quella mescolanza di antico e moderno che rivendica come tratto essenziale del suo romanzo. Si tratta indubbiamente dei passi più godibili del libro, e bene fa Walpole a difendere la sua scelta. Non può sfuggire, tuttavia, la connotazione classista di tale caratterizzazione dei domestici: nella prefazione il nobile Walpole afferma infatti che ”Per quanto solenni, gravi o malinconici possano essere i sentimenti dei principi e degli eroi, essi non si riflettono nei loro domestici: almeno, questi ultimi non esprimono, o non li si dovrebbe far esprimere, le proprie passioni con lo stesso tono solenne.” Walpole qui ci fa sentire tutto il suo disprezzo per gli umili, che devono servire solo a mettere in risalto la superiorità morale dei protagonisti.
Della vicenda non dirò molto, anche perché come detto è talmente assurda da indurre spesso al sorriso. Mi preme però evidenziare che, a differenza di quanto avverrà spesso nei continuatori del gotico, soprattutto in quelli che utilizzeranno il genere a fini eminentemente commerciali, non c’è un vero e proprio lieto fine: nelle ultime pagine un padre uccide una figlia innocente, il castello crolla scosso dal tuono divino, ed anche i due giovani che si sposano condivideranno solo la loro malinconia. E’ questo indubbiamente un elemento di interesse del libro, che testimonia come Walpole non abbia inteso scrivere una storia consolatoria, nella quale l’ordine viene ristabilito attraverso la punizione del malvagio e la felicità dei buoni: qui la giustizia divina si abbatte praticamente su tutti i protagonisti, ed è una giustizia più biblica che evangelica: è un dio tremendo che si lascia dietro solo degli infelici. Del resto va dato atto a Walpole di aver saputo – sia pure in forma letterariamente molto grossolana – conferire ad alcuni dei protagonisti tratti di ambiguità che non ne permettono la caratterizzazione nell’angusto spazio dello stereotipo: su tutti la figura di Manfredi, che è signore spietato e malvagio, ma ha anche dei momenti di sincera commozione: all’opposto Federico, nobile cavaliere padre di Isabella, asseconda ad un certo punto l’empia proposta di Manfredi di sposarne la figlia. Lo stesso Padre Gerolamo, prototipo dei frati buoni di molti successivi romanzi gotici, ha tratti e comportamenti non proprio irreprensibili. Forse questa (parziale) assenza di manicheismo nei personaggi è un fattore che ha portato al problematico finale della vicenda.
Un ultimo accenno va riservato alla teatralità dell’opera, rimarcata da Walpole nella prefazione alla seconda edizione anche attraverso il costante richiamo a Shakespeare come modello. La vicenda de 'Il castello di Otranto' è narrata attraverso dialoghi serrati, intervallati quasi unicamente da annotazioni funzionali, e ciò, accanto all’artificiosità complessiva dei fatti narrati e alla quasi assoluta assenza di descrizioni dell’ambiente naturale, porta effettivamente lo smaliziato lettore contemporaneo ad immaginare di essere spettatore di una rappresentazione teatrale, in cui però è evidente la stoffa con cui sono costruite le scene e la cartapesta con la quale sono realizzati il grande elmo e l’enorme spada che compaiono nella storia; il tono usato dai personaggi è tale che – se dovessi dire a che tipo di teatro siamo vicini – mi verrebbe in mente non Shakespeare, ma quello, peraltro nobilissimo, dei pupi.
Come in altri casi quando affrontiamo i classici, anche la lettura de 'Il castello di Otranto' va a mio modo affrontata non tanto per ciò che dal punto di vista strettamente letterario ci può fornire: in questo senso come detto era già, a mio avviso, un’opera minore quando uscì, ed oggi lo è ancora di più. E’ però un’opera importante, perché segnala l’inizio di due fatti che avrebbero avuto una fondamentale importanza nella storia della letteratura e della produzione culturale dei decenni successivi. Da un lato l’intuizione di Walpole che l’esotismo, il mistero e la paura potessero essere gli elementi fondanti di una letteratura popolare, in grado di attrarre lettori incolti in cerca di emozioni semplici ma forti. Dall’altro il fatto che questa letteratura potesse svolgere un ruolo anestetico rispetto alla realtà e alla descrizione delle sue contraddizioni, oggetto delle moderne novels. Probabilmente Walpole prese le mosse, per la sua opera, da una opposizione aristocratica al realismo del romanzo borghese del suo tempo: di lì a poco la stessa borghesia, consolidato il suo potere, si servirà di questi stessi strumenti per tentare di anestetizzare le masse che questo potere potevano mettere in discussione. Oggi i mezzi sono cambiati, ma il fine è il medesimo: Hollywood è diretta discendente de 'Il castello di Otranto'.

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I grandi romanzi del '700 inglese
I romanzi gotici dell'800
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Intanto, notevole recensione, Vittorio.
Non ho letto il libro, però pensavo piacesse di più. Un pregiudizio, ovviamente.
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