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Nel paese della memoria il tempo è sempre ora.
Devo dire che fino a questo libro non avevo particolarmente amato Susannah. Come accennavo nei Lupi, complici la figaggine, la bravura subita ed immediata in tutto e qualche stucchevole vezzo linguistico (peggiorato dalla traduzione italiana).
È vero che aver creato una pistolera senza gambe, costretta a muoversi su una sedia a rotelle era stato un colpo niente male, ma il personaggio era un po’ “né carne né pesce” secondo me (oltre al fatto che si sposava con Eddie e questa era dura da digerire).
Sapendo che qui avremmo avuto persino Susannah madre, avevo foschissime aspettative. Ma è King.
Nel libro che poteva essere il trionfo dello stucco e del politically correct (?) ti fa amare un personaggio forte che finalmente si caratterizza. Un personaggio in perenne conflitto con sé stesso e non solo a causa delle altre “anime” che vivono in lei, ma forte e razionale e – soprattutto – allergico a raccontarsi storie.
“Già da bambina raramente era stata tanto felice come quando fingeva di essere qualcun altro. La qual cosa probabilmente spiega tutto quello che vale la pena di sapere su di te, dolcezza, pensò.”
Quindi Susannah, alle prese con una Mia ben più pericolosa di Detta, madre nel modo più bizzarro che si possa immaginare si afferma e conferma pistolera.
Un istante dopo aver partorito, spara al figlio.
Ahimè riesce solo a staccargli una zampa.
E ci avviamo al finale.