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il diavolo nella bottiglia
E’ una storia dura, cupa, quasi intollerabile, illuminata a tratti da lampi di ironia beffarda, quella che Adler-Olsen racconta nelle pagine del suo libro. La vicenda si svolge in una Danimarca fredda e buia, fuori e dentro: fuori nella natura prossima a svegliarsi, ma ancora addormentata, dentro nelle pieghe sfuggenti dell’animo umano. Scuro il paesaggio per lo più vespertino o notturno, buio lo scantinato senza finestre dove lavora la Sezione Q, “freddo” il caso indagato, nero il cuore dell’assassino.
I personaggi, all’inizio apparentemente anonimi e piatti, acquistano con il procedere della lettura spessore psicologico e umano, diventando motori della vicenda e nello stesso tempo parti di un meccanismo complesso che si muove automaticamente come un orologio. Nessuno di loro ha quella che si definisce una “vita felice”; al contrario, vive con difficoltà un’esistenza grigia, difficile, costellata da insoddisfazioni e batoste. Tutti hanno segreti, “zone d’ombra”, hanno subito o sopportano piccoli ricatti e tutti, con la propria personalità contorta, giocano e rischiano, in modo diverso, la partita della vita.
Molto originale la struttura della storia che si dipana seguendo due livelli, quello che si riferisce al passato e quello che si attesta nel presente. Una bottiglia, contenente un messaggio, abbandonata fra l’indifferenza di tutti sul davanzale di una finestra di una anonima sezione di polizia, di colpo attira l’attenzione di un agente e, con lentezza, fra l’insofferenza e l’irritazione di chi non vorrebbe perdere tempo con”reperti del passato”, svela i propri segreti. Contemporaneamente, prende il via un progetto criminoso, studiato e messo in moto da una mente disturbata. In un crescendo di tensione, i due percorsi finiscono per sovrapporsi e fondersi insieme, suscitando lo stupore degli stessi investigatori che si trovano improvvisamente e inaspettatamente tra le mani un caso aspro e clamoroso.
Altrettanto interessante risulta il fatto che ad essere trait d’union fra i due piani sia proprio l’assassino, la cui identità è nota al lettore fin dall’inizio del libro, lettore, che si trova, paradossalmente, ad avere le informazioni fondamentali per risolvere il caso, mentre gli investigatori della Sezione Q navigano ancora nel buio più completo.
L’assassino non solo agisce, ma anche parla. E’ loquace, si racconta, ricorda un passato doloroso e terribile, che giustifica, ai suoi occhi, il proprio modo d’essere nel presente. La narrazione è rigorosa, non tralascia nessun particolare, spande perfino fascinazione, intrappola il lettore che rischia di trovarsi in empatia con chi non merita tanta partecipazione. Al contrario, riflettendo su tali rivelazioni, emerge con forza la consapevolezza della portata del problema delle sette religiose, mondo monolitico e schizofrenico attorno al quale si attorcigliano false verità e la tendenza, espressa a volte in modo brutale, a plasmare le menti dei giovani adepti alle leggi di una razionalità distorta.
La storia, come si può capire, compone un quadro complesso, ma ottimamente gestito. I suoi ingredienti sono mescolati con abilità e senso del ritmo, calcolati in modo da non dare scampo al lettore, sempre sul filo del rasoio e senza un attimo di respiro. Si corre verso un finale che sembra liberatorio, ma non lo è più di tanto. Un linguaggio duro e secco che non sbava mai, nessun sentimentalismo, un sottile senso di inadeguatezza e sconforto che si consuma lungo tutto il racconto fanno di questo testo un capolavoro del suo genere.