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Era meglio non fosse tornato...
Per quanto abbia apprezzato Mankell in altri suoi romanzi senza assassini ed ambientati in luoghi ben distanti dalla sua terra natia svedese, non posso nascondervi quanto questo suo thriller mi abbia deluso.
Era da tempo, infatti, che desideravo avvicinarmi ad uno dei suoi romanzi gialli più apprezzati dal pubblico, come gli stessi lettori che mi hanno preceduto in questo commento, ma l'incontro non è stato affatto appagante.
E' un pò come quando nasce un'attrazione 'virtuale' tra due persone che non si conoscono minimamente, lui magari vede una sua foto-copertina, si lascia adescare, guarda in giro i commenti sul suo conto, legge la sua storia e pensa che possa funzionare tra loro e l'immaginazione alimenta questa sua convinzione, magari pensa 'è proprio ciò che cerco da tempo'..
Ma, giunto il momento in cui l'incontro diventa reale, il palazzo di sogni così eretto si sgretola progressivamente trasformandosi in una doccia fredda che si abbatte con tutta la sua intensità sul capo del malcapitato sognatore, ponendolo di fronte ad una realtà ben diversa da quella sospirata.. e sebbene sappia inconsciamente quanto sia inutile insistere - perchè è sempre la prima impressione quella che conta, quella veritiera - lui non demorde, si sforza di trovare nell'altro anche solo un dettaglio, un appiglio per non naufragare nella più totale delusione per aver preso un abbaglio così grande.. ed invece niente, nessuna sorpresa, nessuna attrazione magica.. anzi più approfondisce la sua conoscenza, parola dopo parola, più resta infastidito dalla sua banalità.
Ecco, spero di aver reso l'idea, perchè non me ne voglia il buon caro Mankell, pace all'anima sua, ma la mia esperienza con questo romanzo è molto simile a quella appena descritta.
Mankell non è certo un novellino quando porta alla luce questo romanzo, anzi è reduce dalla fortunata serie noir legata alle vicende del commissario Wallander con un ottimo successo di critica.
E nelle prime pagine del libro ci sono tutti i presupposti per intravedere nel Ritorno del maestro di danza le fattezze di buon thriller: incipit intrigante ambientato nel passato, durante la seconda guerra mondiale; ritorno al presente con omicidio efferato di un ex poliziotto, Herbert Molin, ormai in pensione nella casa in cui da anni l'anziano ufficiale conduceva una vita in appartata solitudine nel bel mezzo della foresta svedese; strani indizi che la polizia locale non riesce ad interpretare per collegarli ad un possibile movente di un omicidio tanto spietato quanto insolito in una regione come questa del nord della Svezia, fredda, isolata, inospitale.. come i pochi abitanti che vi dimorano.
Interviene sul caso anche l'ispettore Stefan Lindman, in forza nella città svedese di Boras, amico ed ex collega del defunto, che decide di rinunciare ad una vacanza rilassante al mare recandosi invece nel bosco dello Härjedalen, con l'intenzione di aiutare la polizia locale nelle indagini su quella strana morte.
Non per eccessivo spirito filantropico, direi: se una dottoressa non gli avesse diagnosticato un cancro ed ancor più se non gli avesse prescritto di tornare in ospedale dopo due settimane per ritirare l'esito definitivo degli esami, probabilmente il nostro ispettore avrebbe deciso di trascorrere la sua vacanza al mare.
Ma l'atmosfera solare e vivace di una località balneare non sarebbe stata in sintonia col suo stato d'animo e la sua improvvisa paura di morire, talmente forte da annullare un qualsiasi barlume di speranza di poter resistere alla malattia.
Per questo decide di indagare sulla morte del suo collega, convincendosi che quella strana morte potesse tener lontana la sua mente dal pensiero ricorrente ed assillante della propria morte.
I presupposti per un buon thriller quindi non mancano, peccato però che proseguendo la lettura del romanzo si scopre che essi rimangono solo 'presupposti', non evolvono e non si confermano, ed il lettore non può fare a meno di sentirsi ingannato constatando la pochezza di una trama che sembra quasi improvvisata per quanto banale e superficiale sia la costruzione degli eventi che porta alla svolta nelle indagini. E' proprio questa, infatti, la caratteristica che rende un thriller un capolavoro, la capacità cioè dell'autore di progettare una catena di cause-effetti che sia plausibile seppur ben celata nella trama.
Caratteristica, a mio parere, del tutto assente in questo romanzo: alcuni particolari che sembrano rilevanti muoiono nel corso della storia senza alcun legame con gli eventi successivi, altri particolari invece portano a conclusioni del tutto scontate o facilmente prevedibili.
Ed ecco che compaiono personaggi che puzzano di marcio lontano un miglio, ecco che intervengono poliziotti paragonabili per arguzia ai carabinieri delle nostre barzellette che discutono sull'evolversi delle indagini negli uffici del piano terra della stazione di polizia e con le finestre aperte (anche in Svezia a volte fa caldo) senza tener conto che qualcuno potrebbe avvicinarsi ed origliare, abitudine tra l'altro molto diffusa nei villaggi svedesi; e mi fermo qui per non screditare lo stesso ispettore Lindman-Clouseau, la cui ingenuità sfiora spesso il ridicolo.
E come se non bastasse, forse mosso dalla convinzione che un romanzo possa definirsi tale solo se diluito in circa 500 pagine, l'autore cerca di colmare le lacune di una trama inconsistente con una descrizione accurata e profonda dello stato d'animo del protagonista, in bilico tra la vita e la morte annunciata, che diventa ben presto ripetitiva e snervante.
Un tema tra l'altro, quello della morte, che l'autore riprenderà diversi anni dopo col suo ultimo libro, autobiografico, "Sabbie mobili", affrontandolo però in modo molto più intimo e liberatorio, anche perchè colpito da un cancro non più finto ma reale, così come reali e tragici sono stati i suoi effetti.