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Il Giallo in salsa di soia
Charlie Chan è uno dei personaggi di maggior spicco nel panorama poliziesco del ventesimo secolo, nonostante che l’autore, Earl Derr Biggers, gli abbia dedicato solo sei romanzi (morirà nel 1933 quando il successo di questo suo inconsueto investigatore orientale era al massimo).
Gran parte della popolarità gli derivò dal fatto di essere stato protagonista di una lunghissima serie di film interpretati da Warner Oland e da Sidney Toler; senza dimenticare l’esilarante parodia fattane da Peter Sellers in “Invito a cena con delitto”.
Dal punto di vista letterario i romanzi che lo vedono protagonista, benché siano da classificare, a pieno titolo, tra la letteratura di evasione (o di serie B), sono dei piccoli capolavori di equilibrio.
Infatti alla trama poliziesca sono abilmente miscelati un intreccio “rosa” - non manca mai il giovanotto ricco e fascinoso che corteggia la bella ragazza emancipata ed esuberante - ed una accurata descrizione ambientale, al punto da chiedersi se Biggers non fosse stipendiato dalle aziende turistiche per sponsorizzare le varie località poste sullo sfondo delle sue storie.
Il personaggio dell’investigatore, poi, nella sua caratterizzazione, risulta particolarmente simpatico. A differenza del detective classico che tende a porsi al centro dell’attenzione, il sergente cinese della polizia di Honolulu, piccolo, grassoccio e prolificissimo (ha una famiglia in continua espansione), lavora “sotto traccia”. Charlie preferisce agire sempre come spalla di altri soggetti, anche se la soluzione finale è opera sua. Caratterialmente si ammanta della smisurata falsa modestia che all'epoca si riteneva tipica degli orientali. Condisce le sue acutissime osservazioni con l’immancabile proverbio cinese volto a sfumare i contorni dell’affermazione. Le sue ferocissime battute sono sempre stemperate dalla squisita gentilezza con cui le indirizza nei confronti della vittima di turno della satira. Evita le teorie ardite propugnate dai comprimari perché, come dice lui spesso, “volando basso, se si cade, ci si fa meno male”.
I libri sono tutti strutturati secondo il medesimo consolidato cliché. Sono ambientati nella opulenta società americana, ove tutti sono ricchi, belli e vestiti elegantemente. Qui la figura di Chan irrompe come elemento di cesura rispetto al sentire prevalente. L’indagine si incanala sempre, immancabilmente, in una serie di false piste, mentre, parallelamente, si dipana la storia d’amore tra due giovani protagonisti sullo sfondo di scenari affascinanti. Infine, grazie ai tre ingredienti principali (teorizzati da Chan) di intelligenza, pazienza e fortuna si giunge alla soluzione finale, in genere mediante una pubblica esposizione. La trama gialla non è, per lo smaliziato lettore moderno, particolarmente sofisticata o arzigogolata. Anzi, se vogliamo, talvolta cede al naïf, ma è pur sempre gradevole.
Connota i romanzi un pacato intento antirazzista e bonariamente femminista. Invero, da un lato Chan, in quanto cinese, è malvisto o, quantomeno, sottostimato della buona società americana degli anni ’30, ambiente in cui egli è sempre chiamato ad investigare, anche contro la sua volontà. Questa è freddamente, spietatamente WASP, ma, proprio perciò, il piccolo cinese riesce sempre a stupire i suoi interlocutori e a prenderli contropiede. Le ragazze, poi, sono sempre bellissime, intelligentissime, ma soprattutto sono emancipate: tutte lavorano in ruoli tipicamente maschili, anche contro i benpensanti dell’epoca. Il fatto, poi, che, alla fine, cedano al corteggiatore di turno è solo una concessione al gusto dei lettori di quegli anni.
“Il pappagallo cinese” è un tipico esempio di questa serie di romanzi. Seconda storia in cui appare Charlie Chan, ha una particolarità che ne fa un caso unico nella letteratura gialla. L’indagine (si suppone per omicidio) parte senza che ci sia alcun morto né, per la verità, alcun sospetto di reato: il primo cadavere (un cameriere cinese, guarda caso!), se escludiamo il povero Tony, il pappagallo che dà il titolo al libro, compare superata la metà della storia ed è, secondo una espressione odierna, solo una vittima collaterale. Tuttavia l’interesse per l’enigma che si ingarbuglia pagina dopo pagina, resta alto sino in fondo.
La conclusione, per un lettore moderno, scaltrito dalle miriadi di trame poliziesche con cui è bombardato costantemente, non porta particolare stupore. Tuttavia proprio l’ambientazione in un epoca in cui ci si spostava a piedi o in taxi, per telefonare si doveva usare un apparecchio fisso passando per un centralino, era considerata tecnica investigativa particolarmente sofisticata quella della ricerca delle impronte digitali, è una sorta di ventata d’aria fresca in un ambiente divenuto ormai troppo soffocante.
In conclusione una piacevole lettura per staccare la spina qualche ora.