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Lo spudorato testamento olografo antirazzista
Seth Hubbard è morto. Suicida. Di per sé non sarebbe un fatto clamoroso, considerando anche che l’uomo era malato terminale con una speranza di vita di poche settimane. Il fatto sensazionale è che Seth, diventato ricchissimo dopo il secondo divorzio, grazie a spregiudicate operazioni commerciali, ha diseredato figli e nipoti per lasciare tutto, con un testamento olografo scritto il giorno prima del suicidio, alla governante/cameriera/badante Lettie Lang. Nera. Se a questi dati aggiungiamo che la vicenda si svolge nel Mississippi del 1988, ancora permeato da forti istinti razzisti, si comprende bene la drammaticità della situazione. Il testamento è stato inviato per posta a Jake Grimance, diventato noto in città per aver difeso vittoriosamente Carl Lee Hailey, un nero che tre anni prima, in tribunale, aveva ucciso gli uomini che avevano barbaramente seviziato la figlioletta. Ovviamente si accenderà una agguerrita battaglia legale con discendenti diretti che non accettano serenamente di perdere l’eredità, quantificata in oltre ventiquattro milioni di dollari. Durante i mesi della fase pre-dibattimentale ed i roventi giorni del dibattimento in aula, davanti alla giuria, si susseguiranno colpi di scena su colpi di scena che sembreranno ribaltare ripetutamente i pronostici sull'esito finale della controversia. Un ultimo sconvolgente fatto sarà decisivo per la decisione della giuria.
Sono stato in acceso fan del John Grisham dei primi anni, al punto da non perdermi neppure un’uscita in libreria di un suo romanzo. Poi, però, l’autore ha cominciato a mostrare la corda. Le storie erano più o meno sempre le stesse, quasi fossero state montate con i pezzi del Lego, via via riciclati. La tensione era sempre più annacquata e gli intrecci scontati o banali. Dopo le ultime cocenti delusioni (non piccola quella dell’unico romanzo ambientato in Italia: “Il Broker” il cui unico interesse sta nella descrizione di luoghi e situazioni a me familiari), avevo deciso di non farmi più abbindolare nei suoi legal thriller.
L’unico motivo che mi ha fatto recedere dai miei propositi risiedeva nel fatto che questo libro riproponeva i personaggi del suo primo, e migliore, libro “Il momento di uccidere”. In questo secondo l’Avv. Brigance non è coinvolto in una causa penale di così vasta importanza mediatica e sociale, ma i temi sono gli stessi: il razzismo e la società chiusa e diffidente delle piccole cittadine del Sud.
Giunto alla parola fine debbo dire che non mi sono pentito di essermi riavvicinato all'autore. Il romanzo scorre molto bene, i personaggi sono curati e la storia non è affatto banale. Tra l’altro ho apprezzato che non vi sia una divisione manichea tra buoni e cattivi, ma che ognuno dei personaggi abbia i suoi lati oscuri e le sue meschinità, come è giusto che sia per amore di realismo. Ho trovato affascinante la descrizione del sistema giudiziario americano nel quale le cause si vincono o si perdono sulla scia di un coinvolgimento emotivo di 12 persone totalmente digiune di diritto. Lo stile narrativo di Grisham è ineccepibile, anche nei momenti in cui la storia perde di tensione: le cause non sono spettacoli teatrali, ma lunghi giochi di astuzia in cui spesso la noia di certe lungaggini si alterna alla tensione di altri momenti. Quindi è giusto che anche il romanzo sia così. Molto ben descritte e vere, poi, sono le emozioni che i coinvolti provano di volta in volta.
In conclusione “All'ombra del sicomoro” è un buon libro, non propriamente un legal thriller (visto che anche il colpo di scena finale è abbastanza prevedibile e scontato), ma certamente un romanzo coinvolgente e che vale la pena di leggere.
Detto ciò mi è, comunque, rimasto il dubbio che Grisham non abbia perso il vizio di riciclare e rimasticare sempre le stesse idee. Non posso dirlo con certezza, non avendo letto “Il Testamento” (nel quale, però, i presupposti sono sin troppo simili) né conoscendo la sua ultima produzione, ma il sospetto rimane e, quindi, mi fa da remora a concedergli un voto pieno.