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Wallander, atto I: la Svezia ed i profughi
Corre l’anno 1991, in una piccola fattoria sita in una località sperduta della Scania vengono trovati i corpi di due anziani contadini. L’uomo è stato barbaramente torturato ed ucciso, la donna, strangolata con un cappio che le ha reciso la carotide, ormai è in fin di vita. Il Commissario Kurt Wallander sarà chiamato a risolvere questo caso che turba le coscienze degli svedesi, in un momento cruciale della loro storia. Con la recente caduta del muro di Berlino, infatti, la Svezia è sottoposta ad una ondata crescente di profughi che stanno mettendo in seria crisi la ben programmata amministrazione scandinava.
Purtroppo non ci sono indizi di alcun genere per indirizzare le indagini, ma solo una stranezza, la giumenta che, all'arrivo della polizia, aveva la greppia piena di biada fresca, ed una parola, “stranieri”, pronunciata dalla donna prima di spirare all'ospedale. Una fuga di notizie su quell'ultima parola aggiunge problema a problema: un'ondata di odi razziali si riversa sul Paese e, a farne le spese, è un giovane somalo con famiglia numerosa, che viene freddato da fucilata in faccia, proprio dentro un campo profughi.
Solo la tenacia di Wallander e della sua squadra consentirà, dopo quasi un anno di ricerche, di assicurare alla giustizia gli autori dei due fatti criminosi.
Con questo romanzo si iniziano le storie del commissario Wallander, uomo dai molti problemi personali, ma dalla incredibile tenacia come investigatore.
Non conoscevo le opere di Mankell né avevo mai seguito le vicende di Wallander (neppure quelle trasposte in film TV dalla BBC e recitate da Kenneth Brannagh) e mi sono avvicinato a questo personaggio con curiosità, pur diffidando ormai dei giallisti svedesi, dopo una serie di precedenti esperienze abbastanza deludenti.
L’impressione finale è abbastanza ambigua. Infatti mi sono trovato di fronte non ad un romanzo giallo classico, di quelli proposti al lettore in modo da stimolarlo alla ricerca del colpevole assieme agli investigatori, né ad un tipico poliziesco con azioni ed avvenimenti incalzanti. “Assassino senza volto” al contrario è la mera, diligente cronaca di una indagine di polizia, con tutti gli alti e bassi che questa comporta: accelerazioni e lunghi periodi di stasi in cui non appare succedere nulla di significativo. Sotto questo profilo la storia è decisamente verisimile, ma, proprio per ciò, non particolarmente appassionante. Molto più coinvolgenti, perciò, appaiono le vicende personali di Wallander. Il commissario ci viene descritto neo-divorziato, con problematici rapporti con la giovane figlia e col padre, ormai in crisi senile. Ha problemi di alcool e di insonnia, non riesce a concepire la vita se non entro gli schemi dettati dal suo lavoro, ma, durante le indagini, uno dei suoi più fidi collaboratori improvvisamente si ammala. Non ha amici: quelli di un tempo sembrano tutti ormai troppo diversi da lui. Solo la musica lirica, specialmente quella italiana, concede qualche momento di serenità all'uomo. Insomma il romanzo è la descrizione di un poliziotto tormentato più che della sua caccia all'assassino. In queste pagine il romanzo mostra i suoi maggiori pregi, per quanto la narrazione sia afflitta da quella tipica lentezza che contraddistingue gli scrittori scandinavi.
Un ulteriore elemento di interesse, per quanto meramente contingente, riguarda la questione dei profughi, tema centrale del libro. Il romanzo, scritto venticinque anni fa, si dimostra di una attualità agghiacciante: la Svezia del 1991 che si dibatte tra crisi xenofobe e sussulti di razzismo, ed i vani tentativi di integrazione dei profughi ammassati in campi di accoglienza inadeguati, assomiglia in un modo impressionante all'Europa del 2016. Da questo punto di vista, quindi, il libro merita una particolare attenzione per i punti di riflessione che propone.