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Abbiamo sempre vissuto nel castello
 
Abbiamo sempre vissuto nel castello 2016-02-10 18:58:51 Giu_Bi
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Giu_Bi Opinione inserita da Giu_Bi    10 Febbraio, 2016
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... e per sempre ci resteremo.

Attenzione: lievi anticipazioni!
Ha davvero un tocco da maestra Shirley Jackson, che leggera come una piuma ci introduce nel piccolo mondo stregato di Mary Katherine “Merricat” e Constance “Connie” Blackwood.
Le due sorelle vivono in un’antica, splendida casa vuota con l’invalido zio Julian; il resto della famiglia è morto sei anni prima per un non troppo misterioso avvelenamento. Le ragazze però vivono una vita serena e fatata, nell’isolamento consolidato da anni e mantenuto a ogni costo. La questione dell’omicidio tuttavia riemerge con insistenza per voce dello zio Julian, che ne parla e ne scrive ossessivamente nei suoi “appunti” e impedisce alle sorelle (e con esse al lettore) di dimenticarsene, lasciandosi ipnotizzare dall’idilliaco nitore della loro quotidianità.

Gli equilibri si rompono bruscamente con l’arrivo del cugino Charles, latore potenziale del tanto temuto “cambiamento”. Il cambiamento semina la superstizione, la paura, infine il panico e la violenza.
Il lettore vive un lieve ma inesorabile crescendo di tensione, che sfocia in una scena d’inaudita distruttività: la violenza è fortissima nelle azioni dei personaggi – i paesani inferociti che si sentono finalmente autorizzati a scaricare la propria violenza su casa Blackwood – ma anche nel racconto della Jackson, ripetitivo, ipnotico, che indugia spaventosamente sui piccoli moti d’odio nell’animo dei paesani. La scena della distruzione è straziante, e fa implorare la fine.

La scrittura è semplice ma assai efficace; l’Autrice rende perfettamente l’atmosfera inquietante attraverso le piccole frasi cantilenanti, i pensieri superstiziosi di Merricat che sono inseriti con apparente noncuranza nel tessuto del racconto, ma stridono così forte che non si possono più ignorare: ben presto il lettore sente che “c’è qualcosa che non va”. Le piccole ossessioni, i gesti ripetitivi con valenza magica si accumulano ad alimentare la perdita di contatto con la realtà, la superstizione, l’inquietudine.

Le porte di casa Blackwood si richiudono infine alle spalle delle due sorelle che, riuscite nell’intento di buttare fuori il resto del mondo, si rintanano a leccarsi le ferite nella loro tana di piccole, regolari abitudini. Al lettore rimangono impresse l’inquietudine, il ricordo dell’odio esplosivo che scorre appena sotto pelle, e una certa ineffabile nostalgia per un mondo dal quale si sente inesorabilmente escluso.
Potente, elegante, bellissimo.

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