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De senectute
Il romanzo, datato 1966, appartiene alla tarda produzione di un autore tra i più prolifici del ‘900 che smise di scrivere agli inizi degli anni ’70, un decennio prima di morire (1989).
Si sa che lo consegnò alle stampe siglandolo come uno dei romanzi più feroci che avesse mai scritto e , incuriosita, trovo conferma da brevi indagini in rete che la genesi fu quella che accompagnava tutti i suoi scritti: un metodo infallibile che gli permetteva dalla prima intuizione di chiudere un’opera in brevissimo tempo, circa una settimana più una manciata di altri giorni per la revisione. Trovo conferma inoltre della componente autobiografica presente in questo scritto: l’età anagrafica dell’autore coincide con l’inizio della vecchiaia, età vissuta e percepita con amarezza per il bagaglio di vissuti che trascina, carico forse eccessivamente della percezione dei propri fallimenti. I protagonisti del romanzo vivono il loro avvicinamento alla morte pateticamente investendo in nuove relazioni umane, salvo capire che per loro un nuovo incontro, una nuova unione sminuiscono il vissuto precedente falsandone l’origine, il ricordo, l’identità. Lo stesso Simenon, seppur molto attivo sessantenne, dovette ritrovarsi a fare un bilancio del proprio vissuto e delle relazioni che lo avevano caratterizzato a partire dall’infanzia: la coppia genitoriale, i suoi due matrimoni, la nuova relazione...
E così giunge l’intuizione di base, il pretesto per parlare delle unioni coniugali, della loro finitezza, della labilità delle relazioni uomo- donna, della vita e della morte ma soprattutto dell’ultimo segmento della vita e dell’essere anziani. Ne vien fuori uno sguardo impietoso e a, mio avviso, sottilmente misogino.
Due vedovi, ormai anziani, si conoscono e si sposano. La loro unione non si realizza mai: non consumano il loro matrimonio, non condividono il passato, il ricordo, l’appartenenza a mondi differenti e peggio che mai il presente. Una momentaneo malanno di Emile coincide con la sparizione del suo adorato gatto, unico retaggio del suo passato e della sua identità:viene ritrovato morto avvelenato, in cantina. Mai si avrà la certezza che la morte sia dovuta alla malvagità della moglie Marguerite come ritiene Emile, mentre inconfutabile sarà la sua colpevolezza rispetto alla morte del pappagallo di Marguerite. Lo vediamo Emile in azione spennarlo sadicamente, salvo pentirsi delle estreme conseguenze del suo gesto.
Il lettore viene posto fin da subito in situazione neutrale dal volere narrativo: Simenon lo fa accomodare per farlo assistere ad una guerra vera e propria. A tratti si ha l’impressione di subire le bassezze e le cattiverie dell’uno piuttosto che dell’altro, ma un semplice cambio di punto di vista fa abilmente ribaltare la situazione costringendo il lettore ad un ‘impossibilità di immedesimazione. Se si aggiunge a questa fumosità l’aggravante di appartenere al sesso femminile o maschile, di essere più o meno felicemente coniugati, di non esserlo affatto, di averci provato, di aver sperimentato talvolta qualche meschino atteggiamento rappresentato e non contemplato da alcun trattato sull’amore , beh allora la spirale vorticosamente attanaglia il lettore. Più volte il quadretto familiare psicopatologico rappresentato è stato così respingente da indurmi a non terminare la lettura. L’assenza di qualsiasi abbellimento stilistico, l’asciuttezza della prosa, la crudezza del quadro rappresentato mi hanno invece tenuta ancorata ad essa.
Sebbene entrambi i coniugi vengano rappresentati nella loro accezione più negativa, a parer mio, prevale una vena sottilmente misogina per cui la mela marcia in ogni coppia è comunque la donna mentre l’uomo è succube del potere femminino in attesa del momento opportuno per poter godere della propria libertà, così abilmente immolata, e per poter gioire infine dell’unica sua vera vittoria, salvo poi scoprire che ci si è ridotti ormai al niente .
Opera sicuramente da leggere.
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