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Paura psicologica, questa sconosciuta
Secondo l’introduzione del romanzo, le cosiddette esperienze ai confini della morte sono proprie di coloro che hanno vissuto condizioni psicofisiche particolari, come il coma, e che sono temporaneamente entrati in contatto con l’oltretomba. Tra le testimonianze più ricorrenti si ricordano quelle che descrivono un tunnel, una luce accecante, un lago piatto e immenso.
Gli studiosi motivano tali fenomeni come immagini prodotte dal cervello in situazioni di carenza di ossigeno, ovvero distorsioni di ricordi immagazzinati nella memoria umana nel corso degli anni.
Un argomento misterioso al cui fascino hanno contribuito nel corso dei secoli mitologia, arte, letteratura.
Dante ci ha accompagnato tra Inferno, Purgatorio e Paradiso, nell’Eneide Virgilio ha descritto l’Ade, i Campi Elisi. E poi i guardiani, come Caronte, e i vari fiumi infernali come lo Stige e l’Acheronte, rappresentato anche da Michelangelo.
Lungi da me qualsiasi aspettativa di trovare nel romanzo di Lars Kepler un impatto culturale altrettanto vasto, certamente non auspicavo che i coniugi svedesi riuscissero nell’impresa di rendere così dozzinale e privo di suspence un tema tanto intrigante.
“Il porto delle anime” racconta la vicenda di Jasmin Pascal Anderson, una tenente dell’esercito svedese operativa in Kosovo.
Colpita da un proiettile in uno scontro a fuoco in cui muoiono due dei suoi sottoposti, Jasmin entra in coma e, una volta risvegliatasi, sostiene di essere stata nell’aldilà, un luogo affollato simile ad un porto cinese da cui salpano numerose barche.
Nessuno le crede, tanto che la protagonista viene inizialmente ricoverata in una clinica psichiatrica.
Passerà poco tempo prima che Jasmin sia costretta a tornare nel porto, stavolta per difendere il figlio Dante, di soli cinque anni, in seguito alle conseguenze di un incidente stradale in cui entrambi restano gravemente feriti.
Il romanzo, come già accennato, non è affatto esente da evidenti limiti. Il personaggio principale è scarsamente caratterizzato, incapace di creare empatia nonostante la ricercata, e non ottenuta, drammaticità degli eventi.
I colpi di scena sono pochi e ampiamente pronosticabili. Decine di pagine ripetitive (ho perso il conto delle volte che è stata utilizzata l’espressione “madida di sudore”) e prive di avvenimenti significativi si accompagnano a sbrigative accelerazioni. Manca del tutto quella paura psicologica che il genere e l’ambientazione avrebbero richiesto. Un thriller da accostare idealmente a venature horror e gotiche, subisce invece il ritmo parzialmente frenetico e fuori luogo degno di un banale film d’azione. Un aldilà in cui trovano spazio cellulari, ristoranti, superflue scene hot ed improvvisati combattimenti a squadre degni di “Hunger Games,” ha un effetto involontariamente comico.
L’ impressione è che i due autori, lontani dalla redditizia e quantomeno qualitativamente sufficiente serie de “L’ipnotista”, abbiano cercato a tutti i costi di raccontare qualcosa di originale, esagerando, in quella che sembra soltanto un’operazione commerciale a breve distanza dal precedente romanzo.