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Organizzato, pulito: senza vita
I romanzi di Simenon, in fondo, si definiscono come un “tutto sommato”: si costruiscono di poche svolte, azioni particellari che si agitano nel reticolo gelido, dalla trasparenza atroce, di un destino già scritto; “tutto sommato” perché anche senza conoscere l’intermezzo, alla fine quel punto d’arresto che con placida insistenza si solleva dopo ogni riga, fatalmente arriva. E’ un approdo forgiato di una necessitò filosofica stringente, di una crudeltà esatta che si abbatte su personaggi inesauribilmente colpevoli e mediocri, senza diritto di replica. Non c’è livore nella penna, non c’è condanna, ma solo un profondo disincanto.
Simenon ha la capacità di descrivere le passioni più violente congelando la pagina: non c’è amore che scaldi, non c’è unione che divampi, non c’è affetto che addolcisca il profilo spigoloso di una banalità che si trascina sempre uguale a se stessa, voluttuosa e avvinghiante. Non c’è il sole nemmeno nella Turchia idealmente tiepida dei “Clienti di Avrenos” o nell’incendio di passione dei “Complici”: solo una terra sferzata dal vento artico di una vita che sfugge dalla resa dei conti con se stessa.
La condanna che pende su Kupereus, di professione medico, accidentalmente assassino, marito tradito, mediocre notabile locale, è quella di essere per l’appunto congelato in questa terra pallida e deserta di una vita a metà, quella di non aver pro-gettato la propria fragilità di uomo, di averla barricata dietro ad un profilo rispettabile, una condotta irreprensibile, una quotidianità dalla ripetitività aberrante; la sua ingenuità, invece, è quella di non aver capito che egli stesso, senza più forze, stava lasciando scivolare via le catene (notevole ribaltamento per un prigioniero!) cui tanto avrebbe voluto essere avvinghiato. In questa dicotomia, sospeso tra le catene del noto e l’inferno dell’ignoto, Kuperus rimane in bilico in un limbo senza anima, pietrificato da un paese di mediocri che lo rifiuta e una cameriera-amante di un’assurdità alla Camus. L’esito di questa vita che non ha saputo o voluto compiere se stessa è già scritto: non potrebbe essere null’altro se non l’atonia.
Ci sono le cause del comportamento, è vero, una filosofia della complessità racchiusa in mezzo fiorino, ma in fondo, alla fine di tutto, c’è un vita rotta al suo primo tardo vagito. Un libro di ossimori e contraddizioni, tortuosi snodi dell’anima che puntano dritti dritti all’implosione.
“L’assassino” è un libro faticoso, sembra consumare fino in fondo una distonia col mondo e con la vita al cui calice esso stesso ha attinto. Dopo aver bevuto il mare salato di una ferocia inaudita (non quella di Kupereus, ma quella dell’animo umano), resta soltanto la disidratazione nauseante di una frattura con la vita, resta il bisogno acuto e insopprimibile di riconciliarsi con la realtà, magari leggendo uno di quei gialli inglesi dove alla fine movente e colpevolezza sono di una trasparenza rassicurante. Eppure, in fondo, tutto sommato, si trascina nella mente quella malinconia che no, un giallo inglese non può colmare.
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Riconosco che S. riesce a scrivere romanzi molto duri in certi casi, un vero pugno nello stomaco, come questo oppure "La neve era sporca" ad es.
@topodibiblioteca: grazie! In effetti mi viene sempre in mente un'espressione che ho usato, crudeltà esatta! davvero dopo la lettura ho avuto bisogno di qualcosa che mi rappacificasse col mondo!
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