Dettagli Recensione
Conflitto d’interessi.
In un futuro quasi prossimo, o in un presente già attuale, il potere politico ed economico in un’ipotetica società comprende anche il dominio totale dei mezzi di comunicazione di massa: ne consegue un vero e proprio conflitto d’interessi.
Privo di un minimo di controllo, di censura, d’informazione imparziale, il potere politico diventa allora assoluto, svolge opera di persuasione occulta e d’influenza subliminale, trasforma ed elabora la cronaca e le notizie a proprio uso e consumo, deteriora l’umanità, la libertà di scelta e di conoscenza, la consapevolezza dei cittadini, trasformandoli in semplici, obbedienti, consumatori di beni e di servizi, del tutto asserviti e plagiati dal potere centrale, che quotidianamente e metodicamente, compie un vero e proprio lavaggio del cervello, utilizzando ai propri esclusivi fini il potere dei media.
Quest’appena descritta non è, come si potrebbe credere, la succinta descrizione della società a suo tempo profetizzata da Orwell nel suo “1984”, e nemmeno un sunto della spinosa questione se non vi sia conflitto pericolosissimo per la libertà, rischiosa contrapposizione quando chi detiene una leadership politica risulta, putacaso, anche un imprenditore principe dei media, se questo particolare inficia o influenza il consenso politico in maniera più o meno occulta.
Trattasi invece dello scenario in cui è ambientato “L’uomo in fuga” di Stephen King, uno dei romanzi “minori” dello scrittore del Maine, a suo tempo edito con lo pseudonimo di Richard Bachman. Considerata l’epoca non sospetta in cui fu scritto, presenta un’ambientazione alquanto originale, singolare e nello stesso tempo difforme dagli scenari classici delle più conosciute opere kinghiane. In questo romanzo King immagina che, nell’ordine delle cose appena descritto, le autorità utilizzano il mezzo principe, la televisione, come un vero e proprio persuasore occulto, propugnando agli spettatori l’equivalente moderno del “panem et circenses” dei tiranni romani. Pertanto, a fianco all’onnipresente e martellante pubblicità che invita all’acquisto e al consumismo sfrenato e ossessivo, visti come unica ragione di vita, sono propinati spettacoli via via sempre più crudi, assurdi, sanguinari ma che appunto, essendo l’equivalente moderno dei cristiani sbranati vivi dai leoni nel Colosseo, stimolano e appagano esclusivamente gli istinti più bassi e triviali della massa che fa audience, accattivandosene l’attenzione e la simpatia, permettendone il controllo e lo sfruttamento.
Ben Richards, il protagonista, ha conservato ancora una parvenza di dignità e di capacità di giudizio, ma i casi sventurati della vita, una figlia gravemente ammalata, la disperazione della disoccupazione, una moglie costretta a prostituirsi per garantire, in qualche modo, la sussistenza della famiglia, lo spingono a partecipare al più cruento dei giochi del network dominante, ed anche quello più ricco in montepremi: “L’uomo in fuga”, appunto. Braccato non solo dai cacciatori di taglie professionisti al soldo del potere costituito, ma in pratica da tutti gli abitanti del pianeta in possesso di un apparecchio televisivo, Ben deve riuscire a non farsi trovare per un periodo sufficientemente lungo e per incrementare il montepremi e per rimanere in vita, giacché il gioco, efferato e crudele, non prevede regole e tutti i mezzi sono leciti. Ma lo sono soltanto ed esclusivamente per i cacciatori, perché, con stupefacente ed agghiacciante abilità, i media manipolano fatti e notizie trasformando l’innocente Ben nel classico mostro in prima pagina, trasformando un’efferata caccia all’innocente in una santa opera di giustizia collettiva.
Il finale non è hollywoodiano, a conclusione felice: ma nello stile del primo King, quello di “Cujo” e “Carrie”, avrà un epilogo tragico e catartico. Ben Richards scoprirà le magagne del potere, classicamente finirà per trasformarsi da preda in cacciatore e il suo sacrificio, forse, non sarà stato vano, permetterà la diffusione, in qualche modo, di brandelli di quello che è il bene supremo dell’umanità: la verità.
Scritto sulla falsariga di un altro romanzo bachmiano quale “La lunga marcia”, a questo assomiglia per il genere, la fantasy fiction, e per le caratteristiche comuni dei protagonisti.
Il Garraty de “La lunga marcia” è, come il Richards de “L’uomo in fuga” un eroe controcorrente, un banale protagonista del quotidiano che, in un sussulto di dignità, prova a riscattare, in un anelito di libertà, la propria umanità brutalizzata e standardizzata da una tecnologia crudele e assurda che non è, come da presupposti, al servizio del benessere dell’umanità, ma è strumento fine e aberrante dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Di King si ritrovano le atmosfere, la maniacale descrizione dei personaggi e degli intrecci, l’interiorizzazione totale nelle vicende e nei pensieri, ancora però abbozzati, ancora non compiutamente e magistralmente espressi, come da lì a poco farà lo scrittore del Maine con le opere della raggiunta maturità.
Perché “L’uomo in fuga” è, per King, un banco di prova, un esercizio di scrittura, un saggio delle sue capacità artistiche; esso può leggersi secondo ottiche diverse, si possono riconoscere temi cari al King uomo e scrittore.
Lo Stephen King cresciuto ed allevato dalla sola madre, che compenserà questa privazione creandosi una propria, solida famiglia con la moglie Tabitha ed i tre figli, si ritrova nell’amore che Ben Richards porta ai propri cari; l’animo democratico di King che si sdegna per la manipolazione della verità emerge nella sottile denuncia allo stile americano di vita, troppo legato ed influenzato dal potere dei media.
Ma soprattutto emerge, inarrestabile, la gran voglia di scrivere, il desiderio fortissimo di King di mettere in ogni caso nero su bianco, di sfornare storie per il piacere prima di tutto suo e poi del suo pubblico, che è il motivo fondamentale, la molla principale che proietta letteralmente King come un uomo in fuga verso il meritato successo.
Di cui tuttora gode presso generazioni di lettori in tutto il mondo che la sera, dopo gli impegni quotidiani, preferiscono senz’altro la compagnia di un libro del Re del Maine alla dose, sempre uguale, di scempiaggini trasmesse dagli ubiquitari ed onnipresenti network.