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Il colpo di fortuna
La vita non è altro che un susseguirsi continuo di eventi, di emozioni diverse e contrastanti, d’incontri, di circostanze; per chiunque l’esistenza è difficile e faticosa, per fortuna a volte ci soccorrono momenti di quiete, di pace, di tranquillità, per i più fortunati frammenti di pura felicità.
La maggioranza, saggiamente, si accontenta della semplicità e della serenità dell’esistenza, sa che la felicità è rara e cieca, come la fortuna, sono troppo aleatorie perché si presentino spesso e puntualmente. La vita è una battaglia, non giorno per giorno ma minuto per minuto; e come dice la vecchia storiella d'origine africana, ogni giorno che Dio manda in terra, non è importante che tu sia cacciatore o preda, ma vedi di darti una mossa, corri, perché la vita stessa questo esige continuamente, che tu sia vitale, attivo, in movimento perenne con rari, talora unici, momenti di sosta, di requie, per ritemprare le energie.
Ne consegue che, più spesso di quel che pensiamo, ci assale la tentazione di possedere qualcosa, la classica bacchetta magica, o, più prosaicamente, qualcosa di altrettanto fiabesco e molto improbabile, quale può essere ad esempio l'altrettanto classica supervincita al superenalotto, che di un sol colpo risolvano le problematiche insite nell'affannoso travaglio quotidiano.
Oppure, va benissimo anche l'acquisizione di un potere, magico e grandioso, di origine fortuita e paranormale, quali, e facciamo un esempio non casuale, la premonizione, il sapere e vedere in anticipo ciò che riserva il futuro, il conoscere non ciò che è, ma quello che sarà con altrettanta precisione del presente: rappresenta certamente una tentazione irresistibile e piena di attese. Appunto perché si considera un mezzo facile e artificioso, ma terribilmente affascinante, che in qualche modo semplifichi e faciliti la propria esistenza, cancelli o mitighi l’angoscia e l’affanno del vivere quotidiano.
La vicenda, terribilmente umana e paranormale a un tempo, dello sventurato John Smith, il protagonista de “La zona morta”, uno dei romanzi migliori di Stephen King, dimostra invece che l'acquisizione di un simile, sinistro potere di premonizione, precipita il protagonista da una comune, semplice e banale esistenza di piccolo borghese, già insita nel nome comunissimo tra la classe media americana, in un'altra dimensione.
Una dimensione grigia e terrificante, nella quale Johnny è condannato a sapere ciò che accadrà prima ancora che succeda, è letteralmente scagliato in una zona morta nella quale gli eventi mancano del carattere di imprevedibilità, di sorpresa, di conquista, di successo, di sconfitta tipiche dell'umana esistenza.
John Smith non è stato gratificato dall'acquisizione del suo potere, ne è stato condannato, la sua dote non è un privilegio, è una maledizione, al giovane è stato tolto il sale della vita, l'esistenza per lui è qualcosa già noto, già visto, già conosciuto, una pietanza insipida.
Un libro già letto, senza chiaroscuri, ma con sole zone morte.
John Smith è stato depredato del bene più prezioso dell'uomo, quello per il quale, dagli albori della civiltà, gli umani hanno sempre combattuto e a esso hanno sempre anelato: il libero arbitrio.
In questo senso, "La zona morta" è un libro sulla libertà.
La libertà di essere, di agire, di lottare, di soffrire; la libertà di amare, di odiare, di porsi un obiettivo, talora neppure tanto evidente, e di gioire nel raggiungerlo o precipitare nell’angoscia di vederlo svanire all'ultimo minuto.
La libertà di essere se stessi e unici padroni e artefici del proprio destino, la libertà di cambiare le cose fidando sulle proprie forze, la libertà di sfibrarsi per cambiare ciò che non si può tollerare oltre, sostenuti dalle proprie illusioni, perdendosi dietro di esse.
La libertà di scegliere il proprio destino, senza sapere quale esso sia, la libertà di correggere in corsa le proprie scelte, di rinnovarle o rinnegarle, di cambiare e di cambiarsi, la libertà di confermare o sovvertire il valore delle proprie scelte, senza conoscerne l’esito in anticipo.
Da questo potere che straripa e che come un turbinoso fiume in piena lo trascina nelle zone morte dell'esistenza, Johnny cerca di difendersi come può, cerca giustamente di trarne del bene, e, ad esempio, prevede incendi e aiuta la polizia nelle sue indagini; ma non può comunque salvare se stesso, schiavo del suo potere, non può o non riesce a mutare il suo destino o a illudersi di farlo: esso a lui solo, unico dannato, è già noto.
Come Re Mida, è vittima dal suo potere; come un tossicodipendente il quale, con un artifizio chimico, s’illude di cambiare la realtà ma rimane invischiato dalla sua droga, John Smith è in possesso non di un elisir ma di un veleno, che lo intossica e lo conduce, inevitabilmente, a un tragico finale. Tragico solo nelle apparenze, trattandosi in realtà di una storia a lieto fine.
Infatti, ci si chiede a un certo punto se, potendo tornare indietro, si spazzerebbe, per esempio, Hitler dalla faccia della terra. John Smith risponde in prima persona, e, infatti, non è lui a porre fine alla carriera e al pericoloso arrivismo di un cinico politicante simile hitleriano dei nostri giorni, anche se indirettamente, con il proprio sacrificio, ne sancisce l’inizio. Non sono le mani di Johnny a colpire, non diventano mani di assassino, per questo la storia finisce bene. Perché la Storia, quella vera, non è la storia degli individui, anche se taluni incidono su di essa, ma è la storia delle masse, dei popoli, è una storia di lotte di classe.
Per esempio, fosse stato assassinato Hitler, al posto del miserabile acquerellista di Monaco si sarebbe creato un nuovo Führer, portato al potere dalla stessa classe sociale che aveva appoggiato ed innalzato Adolf, la classe degli speculatori, degli industriali della Ruhr, dei Krupp e dei fabbricanti di armi, della classe agraria bisognosa di nuovi pascoli e spazi vitali, dei finanzieri che studiavano da anni il modo per estromettere gli ebrei dai vertici delle banche e dell’economia tedesca, saldamente in loro mani.
Molto più giusto, più democratico, più umano, è creare le condizioni sociali per cui certe situazioni non accadano, non nascano, non crescano, non si giunga a un punto di non ritorno arrivati al quale si richiede solo il pagamento di uno spaventoso tributo in vite umane per ricominciare.
Non servono i killer politici, ma il lavoro sulle coscienze; e la vita è troppo preziosa perché privi chicchessia, in nome di una giustizia presunta che è solo arroganza e dittatura, tipica degli autoritarismi.
Nessuno tocchi Caino.
E, per terminare, nella miglior tradizione dei libri di Stephen King, “La zona morta” è anche una storia d’amore.
L’amore di coppia, certamente, ma King esamina qui anche altri tipi d’amore; quello tra padre e figlio, per esempio, e soprattutto una specie d’amore che King, per vissuto personale, dà mostra di conoscere benissimo: quello tra professore e allievo, tra maestro e alunno, tra docente e discente. Non me ne vorranno coloro che, sfortunatamente per loro, della scuola e degli educatori non hanno buona esperienza, eppure il rapporto tra chi insegna e chi impara è, quando svolto bene, prodigo di affetto, di sentimento, di umanità per l’una e l’altra parte. Educare, tirare fuori il meglio da un bambino, da un adolescente, da una persona, è un’arte, e questa, quando è buona arte, è anche amore. Ancora una volta, ci accorgiamo che Stephen King è un artista.
Un grande artista, che ama i suoi lettori, come loro lo amano.