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Formidable!
Alfredo Panzini, Dizionario Moderno, 1908, a proposito dell’aggettivo formidabile: “usare questo aggettivo per cose da poco, risente della maniera enfatica francese (formidable)”
La settimana scorsa, in spiaggia, finalmente nell’ozio più totale dopo un anno molto faticoso, ho letto le 760 pagine del “formidabile” Joël Dicker. Cito la spiaggia e il bisogno fisico di ore di tutto riposo non a caso: la scelta si è rivelata perfetta per quel contesto. Anche perché, come è stato scritto da qualcuno, 700-800 pagine sono il peso ideale per trattenere l’asciugamano in una giornata di vento.
Ho letto i numerosi commenti pubblicati su questo sito e mi sembra che, a parte una discreta quota di entusiasti e una piccola minoranza di detrattori, prevale un consenso cauto e moderato, che loda lo stile veloce e la trama avvincente, pur nella consapevolezza di evidenti limiti (ampio ricorso a cliché da serie televisive, personaggi inconsistenti, banalità di varia natura).
Questo è anche il mio parere.
La trama scorre leggera, non essendo intralciata dai personaggi, che sono privi di qualsiasi spessore, totalmente funzionali all’azione. E poiché l’azione passa attraverso diverse sorprese e capovolgimenti di scena, anche i personaggi subiscono analoga trasformazione, senza che l’autore si sia preoccupato di renderla minimamente credibile.
Al “formidabile” interessa unicamente costringere il lettore a voltare pagina dopo pagina. E, complice la noia, la spiaggia, il caldo afoso, la stanchezza, ci riesce maledettamente bene.
Come ha dichiarato in diverse interviste, Dicker ha deliberatamente utilizzato cliché facilmente riconoscibili per catturare l’attenzione e creare un effetto simile a quello di alcune serie televisive che inizi a vedere per noia, poi per curiosità, poi ne diventi dipendente e non te ne stacchi più.
La quarta di copertina evidenzia il commento di Marc Fumaroli, storico francese, classe 1932, non certo tenero con le contaminazioni dell’arte con il marketing, che parla di “adrenalina letteraria”.
In effetti, gli aspetti più leggeri e semplicistici di quest’opera non urtano al punto di farti abbandonare la lettura. Io sono stato tentato un paio di volte, ma poi ho desistito, forse perché non avevo con me un altro volume in grado di trattenere altrettanto efficacemente l’asciugamano.
Gli elementi più indigesti e più sgradevoli al mio palato sono stati la cornice del “coaching” letterario e il deprimente tormentone amoroso. Su questi aspetti, tocca entrare nel merito.
Marcus Goldman, protagonista del romanzo e proiezione dell’autore, diventato “il formidabile” ai tempi del liceo perché sceglieva astutamente di misurarsi in competizioni dove poteva vincere facile, è uno scrittore che ha pubblicato un romanzo che ha venduto due milioni di copie ma poi cade vittima della sindrome da pagina bianca. Si rivolge al suo amico e professore di università Harry Quebert, che trent’anni prima aveva pubblicato “Le origini del male”, romanzo di grandissimo successo. Quebert risulterà poi il principale indiziato dell’omicidio della quindicenne Nola Kellergan, avvenuto proprio nell’anno di pubblicazione di “Le origini del male”. Tra il maestro e l’allievo si instaura un sodalizio che fa da cornice alla storia vera e propria, e mentre l’uno acquista forza, dell’altro si scoprono sconcertanti debolezze capitolo dopo capitolo, ognuno dei quali viene aperto da un insegnamento, una pillola di saggezza offerta secondo la più scontata retorica “american style”.
Il tormentone amoroso è invece davvero imbarazzante. Il trentaquattrenne Quebert e la quindicenne Nola vivono una storia d’amore dalla quale entrambi non si riprenderanno mai più, l’una perché muore, l’altro perché da quel momento vivrà soltanto di ricordi. Apprendo da altri commenti che c’è una esplicita citazione di “Lolita” per il fatto che Quebert è solito scrivere ossessivamente il nome N O L A scandendo le lettere, come avveniva nell’opera di Nabokov (che non ho letto).
Su un tema così urticante come una relazione tra un uomo adulto e un’ingenua (?) ragazzina, l’autore avrebbe dovuto decidere la prospettiva da cui raccontare e attenersi a quella. Invece, a causa del totale asservimento dei personaggi alla trama, e con lo scoperto intento di piacere a tutti, la storia tra Quebert e Nola viene raccontata con diversi stili, dal romantico-melenso (in piena zona Harmony, con i gabbiani, la danza sotto la pioggia, la vacanza nel resort di lusso, la musica lirica) al retorico-tragico-adolescenziale-maledetto (con qualche pagina involontariamente comica), al sordido-scabroso (la dolce e tenera fatina del paese che apre la patta ad un poliziotto e si esibisce disinvoltamente in un rapporto orale), al malinconico-filosofico-esistenziale (la caduta, i ricordi, il senso di colpa, l’espiazione). Risultato? I personaggi meno credibili del romanzo sono proprio i due principali. Si possono perdonare i cliché finché riguardano i personaggi di supporto, il poliziotto burbero buono, l’editore squalo, l’avvocato cinico, la cameriera che sogna Hollywood, il riccone potente circondato da un losco alone di mistero. Un po’ più difficile è passar sopra le improvvise trasformazioni dei due personaggi chiave: il cambio di maschera motivato sempre troppo frettolosamente e superficialmente di sicuro colpisce, ma un po’ disorienta. Tanto che la domanda principale non è: chi ha ucciso Nola (facendo il verso a “chi a ucciso Laura Palmer” di Twin Peaks), ma piuttosto: chi era veramente Nola?
Lo stesso dicasi per l’ondivago professor Quebert, che impartisce lezioni da un pulpito che non avrebbe diritto ad occupare, si erge a coach di scrittura e di vita, ma fallisce tutte le prove in cui la vita gli chiede di dimostrare un briciolo di maturità, forza d’animo, coraggio, rettitudine.
Forse era proprio questo l’intento dell’autore: sulla scia di precedenti illustri, nella narrativa, come nel cinema e nelle serie TV, voleva forse descrivere la provincia americana come un luogo di personaggi meschini, sciatti, un luogo dove tutti sanno un pezzo di verità ma nessuno parla, tutti sono colpevoli di qualcosa o hanno qualcosa da nascondere, tutti avrebbero potuto uccidere Nola Kellergan e tutti sarebbero stati capaci di farlo, tanto che alla fine non importa nemmeno chi è l’effettivo autore dell’omicidio.
C’è un’aria malsana che avvolge ogni cosa, i personaggi sono pallide ombre e nessuno, nemmeno la vittima, è veramente innocente. In fondo, tutti sono vittima di qualcosa, se non altro di essere nati e vissuti nella provincia americana.
Di fronte a tutto questo, un ragazzetto presuntuoso e fortunato arrivato da New York in cerca di ispirazione, secondo uno dei più collaudati plot hollywoodiani si impone come l’eroe pulito, onesto e integerrimo, riscattando i suoi poco onorevoli trascorsi di antipatico “formidabile”. Trent’anni di omertà spazzati via da un improvvisato investigatore di primo pelo: spettacolo!
Indicazioni utili
Io, senza saperne spiegare le ragioni, credo che potrebbe piacere agli amanti dei legal thriller, alla Scott Turow per esempio. Però se non avete ancora letto Presunto Innocente, lasciate perdere Quebert e leggete quello!
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Ha anche dichiarato che la villa di Goose Cove è ispirata alla residenza in cui la Yourcenar scrisse l'ultima stesura di Memorie di Adriano.
non è il mio genere di lettura, ma una recensioni a 360° come la tua su questi fenomeni commerciali, la leggo volentieri
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