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Il cane di famiglia
Sorprende solo chi non lo conosce sapere che Stephen King, superficialmente etichettato da molti tra lettori e critica come il “re dell’horror”, annoveri tra la sua primissima produzione romanzi in cui l’horror “sensu strictu”, inteso come presenza e protagonismo di mostri, streghe, zombi, vampiri, sia completamente assente: è il caso di “Carrie”, di “La zona morta”, di “Stagioni diverse”, giusto per fare qualche titolo, e appunto di “Cujo”.
In realtà King non è uno scrittore “dell’horror”.
Innanzi tutto egli “è” uno scrittore, con tutti i crismi dell’ufficialità, avendo le basi, la sapienza e la maestria per fregiarsi a buon merito di tale titolo.
Non gli occorre alcun’altra etichetta, in qualche modo riduttiva e, in certi casi, con chiari intenti dispregiativi, derivanti indubbiamente dal fatto che, oltre a saper scrivere, e inventare buone storie, a saperle confezionare ed esternare, doti che, sembra strano, non tutti gli scrittori hanno, King sa anche venderle a un numero sempre crescente d’appassionati: lo stesso King ammette di avere, per sua fortuna, una “ossessione” di scrivere che, in più, si vende bene.
Pertanto King può dirsi, al più, uno scrittore “con l’horror”, in altre parole che utilizza, quando è presente, l’horror classico, e quindi mostri, fantasmi, vampiri, ecc., come uno strumento, un mezzo, per enfatizzare gli orrori reali, questo sì, che non sfuggono al suo acuto spirito d’osservazione.
Perché questo è Stephen King: un acuto osservatore di una realtà che, per vissuto ed esperienza, egli conosce bene. Questa realtà è la piccola provincia americana; costituisce il tessuto e il nerbo di tutta la società americana, un microcosmo nel quale si rispecchiano e risplendono vizi e virtù dell’americano medio, di quel “borghese piccolo piccolo” che può facilmente, nel mito tutto americano, e spesso fasullo del self made man, assurgere all’olimpo degli eroi. Questo perché il microcosmo provinciale agisce come un’enorme cassa di risonanza, e perciò quando s’incappa nella normale malvagità dell’animo umano, questa si trasforma in un vero e proprio mostro.
La maestria di King è tutta qui, nel trasportare l’horror nella quotidianità del vivere, e i suoi autentici mostri si chiamano indifferenza, ipocrisia, cattiveria gratuita, egoismo, e i mostri classici, volutamente confrontati con quelli reali, ne escono sminuiti, quasi assurdamente redenti, purificati.
In estrema sintesi, per Stephen King è più terrificante un pedofilo, che non un licantropo, questo al confronto con il primo appare al più come un lupacchiotto un po’ nervoso.
Gli autentici protagonisti dei romanzi di King sono gli innocenti, quelli ancora non contaminati dai guasti della maturità, i puri di cuore, i bambini o meglio ancora i primissimi pre-adolescenti.
Per una serie di ragioni, non ultima per una malinconica nostalgia che King prova, ricordando i tempi in cui egli stesso era un bambino, viveva in una cittadina di provincia, leggeva libri di Poe e andava al cinema a vedere B-movie come “Il mostro della laguna nera”.
Questi film e queste letture gli forniranno, in età adulta, il mezzo con il quale egli si esprimerà: ma il mezzo, non il contenuto.
Perché il contenuto sarà ciò che egli conosce, la provincia e la media borghesia, e la maestria invece gliela forniranno la poesia e la magia del suo sapersi ancora conservare bambino.
Sotto quest’ottica consideriamo “Cujo”, la storia un po’ banale di una famiglia che sta sfaldandosi, priva di valori morali o in ogni caso d’idee, pensieri, emozioni di pura umanità per cui valga davvero la pena vivere.
Il padre Vic completamente preso dal lavoro di pubblicitario che sta andando a rotoli e dai suoi nevrotici problemi di carriera; la madre Donna, frustata e inconcludente, che non trova di meglio che finire a letto con il rubacuori del paese, e il piccolo Tadder, spaventato dai mostri della solitudine, dell’indifferenza, della sordità alle sue richieste di conforto e attenzioni, autentici mostri questi, assai più reali e dolorosi di quelli ipotetici che si nascondono furtivamente nel ripostiglio delle coperte...
E altri personaggi, e altri mostri, popolano la cittadina, sotto una patina d’apparente rispettabilità borghese: il cattivo e alcolizzato Jo Chambers, sua moglie che trova in una piccola vincita alla lotteria, il coraggio di allontanare il figlio dalla nefasta influenza paterna…Che cosa manca ancora in questo scenario? C’è il paese, il mitico Castle Rock, il bar ritrovo dei pettegoli e perdigiorno, il Mellow Tiger, c’è Evvie, la vecchia del paese, c’è la famiglia con il padre, la madre, il bambino…
Manca qualcuno? Ma il cane, naturalmente!
Il buon vecchio cane di famiglia!
Quel tenero amico di bambini: e non può essere un Lassie o un Rintintin, troppo aggraziati, deve avere un che di contadino, o provinciale, deve all’occorrenza trasformarsi in un mostro, per nascondere ben altre mostruosità.
Ecco Cujo, un S. Bernardo di oltre cento chili, che contrae la rabbia per il morso di un pipistrello.
Cujo rappresenta il pretesto con il quale possiamo ammirare tutta la maestria di King: innanzi tutto nella descrizione precisa e particolareggiata della patologia e dell’incalzare della sintomatologia con l’aggravarsi dell’infezione.
Una competenza medica che, poiché King medico non è, rappresenta il risultato di un certosino e laborioso e scrupoloso lavoro d’accurata ricerca che ci prova, semmai ne avevamo bisogno, come King prenda maledettamente sul serio il suo lavoro, prendendosi la briga di informarsi particolareggiatamente come dovrebbe fare ogni scrittore degno di questo nome.
La scrittura non è solo piacere, è anche fatica, e King non si tira indietro, non bara, non si concede ”licenze poetiche”, egli scrive solo di ciò che sa, e se non lo sa si informa.
Ciò che suscita sentimenti d’autentica ammirazione, ciò che lascia stupefatti per tanta abilità, è l’immedesimarsi nel personaggio, quell’essere tutt’uno con la propria creatura, quel parlare e pensare ed essere effettivamente come lui.
King letteralmente si “trasforma” in Cujo, avvalendosi dell’artifizio di scrivere in maiuscolo i pensieri del cane, pensa come il cane, ci fa vedere letteralmente i pensieri e la logica di Cujo come se fossimo dentro il cervello dell’animale e ne vedessimo scorrere i ragionamenti, le idee, la sofferenza, come su uno schermo luminoso.
Questa particolare abilità di King, questo suo riuscire a “sentire oltre” i suoi personaggi, lo ritroveremo tante altre volte: il suo “essere” perfettamente il personaggio è uno dei motivi che ne fa uno scrittore, un grande scrittore.
Cujo non è un mostro, l’assenza di sentimenti, il vuoto di valori, questi sono i veri mostri, e faranno la loro vittima. E questa è il piccolo Tadder, naturalmente, che finisce vittima non della rabbia di Cujo, ma muore tragicamente “asciugato”, disidratato dall’assenza di sentimento.
La morte del bambino non è un caso, non è mai una banale coincidenza, la morte di nessun bambino: e su questa morte Vic e Donna potrebbero trovare la forza per rimettere insieme i cocci della loro vita; ma ciò non ha alcuna importanza ormai per Tadder, che galoppa nei cieli mitici dell’infanzia a cavallo di…lasciatemi vedere bene…sì, di Cujo.
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Commenti
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Io devo confessare che ho letto poco di KIng, ma che considero "IT" un capolavoro.
Ho in programma una lunga maratona "kinghiana" ad agosto e poi saprò argomentare meglio (io sono un po' monomaniaca. Quest'anno leggo quasi esclusivamente americani e ad agosto quasi esclusivamente King). Però la tua recensione sul male "interno" (non zombie, streghe, lupi mannari, ma quotidiano, banale, intorno) mi ha fatto pensare a quella che King indica come sua "maestra" cioè Shirley Jackson.
L'ho scoperta quest'anno ed è stata una bellissima scoperta, che mi ha fatto apprezzare ancor di più quel poco che conosco di King (e son certa lo farà anche in seguito).
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Lo zio King è un ottimo venditore di se stesso, ma vende solo roba buona!!!