Dettagli Recensione
Di notte, nella città di K.
Non avevo mai letto niente dell'autrice e non sapevo che venisse paragonata a Murakami. Se lo avessi saputo avrei evitato il romanzo perchè Murakami proprio non lo digerisco. Invece l'autrice è davvero brava. La genialità della storia sta nel gioco d'ombre tra realtà e fantasia. Un gioco che diventa come un tarlo, cioè il vero aspetto morboso e avvincente della vicenda.
La storia è scritta in prima persona dall'autrice, rapita all'età di dieci anni e tenuta segregata per un anno da uno psicopatico. La bambina sogna per tutto l'anno di essere liberata da Yatabe, il collega del rapitore. Ma il giorno della sua liberazione scopre che un foro collega la camera di Yatabe con l'appartamento del suo rapitore. Dunque Yatabe sapeva di lei e della sua segregazione. E' un complice e, nei suoi confronti, un traditore.
La storia non è così morbosa come potrebbe sembrare e nemmeno troppo ansiogena. La bambina è l'io narrante, quindi è stata liberata, sta bene, anzi è diventata una scrittrice famosa.
Il mistero è solo psicologico e consiste in una specie di ossessione che induce la ragazzina a tornare continuamente sui fatti del passato ricostruendoli ogni volta in modo diverso. Si crea uno strano miscuglio tra fantasia e realtà, per cui l'impossibilità di ricostruire i fatti con certezza, dà carta bianca all'immaginazione, rende adesive le fantasie e conferisce al passato un potere ipnotico e insuperabile. Non solo sulla ragazza e sul suo aguzzino, ma anche sull'investigatore e in fin dei conti sul lettore che viene chiamato a osservare la storia dal buco nel muro della stanza di Yatabe.
Il trauma e l'impossibilità di superarlo fa sì che la ragazzina veda ogni cosa come doppia nel senso di ambivalente in un continuo gioco di specchi: la madre, il padre, i vicini, i compagni. Tutti i personaggi hanno una doppia natura per cui è impossibile fidarsene del tutto. Persino i genitori, il medico, gli investigatori hanno due facce così come l'aguzzino era cattivo di giorno e buono di notte. Ma anche la bambina, io narrante, ha una doppia identità. Odia l'aguzzino ma contemporaneamente lo ama, gli è amica. La vittima diventa anche lei inaffidabile per il lettore: è incapace di dire tutta la verità senza cambiarla. L'immaginazione entra a tal punto in una realtà ostile da mescolarsi con essa in modo da rendere ogni cosa non solo irriconoscibile ma inconoscibile. Così come la misteriosa città di K è irriconoscibile: deserta di giorno e piena di luci la notte. Ogni cosa, ogni persona ha una doppia natura, una doppia identità. Il trauma è l'evento che scatena la fantasia, strumento di salvezza dal mondo e di allontanamento dalla realtà, anche lei buona e cattiva come ogni altra cosa. C'è un fondo di verità nel ruolo che l'autrice dà all'immaginazione che mi fa pensare che veramente abbia avuto qualche trauma.
Bellissimo il finale.
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