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il mio re e' tornato alla grande
Almeno una volta all'anno ho bisogno di lui: ci penso, come un alcolizzato fa con la bottiglia, nei suoi momenti d'oblio più neri. In realtà, lui mi aiuta nell'impresa diametralmente opposta: disintossicarmi. Mi racconta brutte storie in maniera meravigliosa. Cosa che nessuno fa. Perché lui è artefice di cose che nessuno fa. E' il miglior narratore che ci sia. “Narratore”, figura, quest'ultima, che, al pari dell'artigiano o del ciabattino, non esiste più, o quasi. Sono specie in via di estinzione. Maghi in incognito. Prestigiatori che, dal cappello a cilindro, tirano fuori, a colpo sicuro, capolavori su capolavori. Lui è il Re e io sono un suo fedele suddito: lo venero. A volte, in presenza di uno dei suoi capolavori, posso semplicemente perdere la mia oggettività. Avevo un po’ paura nel cominciare a leggere “Doctor Sleep” ma nel mio inconscio sapevo che mi sarebbe piaciuto. Stephen King crea misteri. Alla fine di ogni suo libro, anzi ho azzardato a dire “ogni”, nel mio caso, regna la più pura ammirazione. Qulacosa che assomiglia vagamente alla felicità. Cosa strana... ma io sono strana, quindi c'è una certa coerenza di fondo. Quando leggo qualcosa di suo, non smetto mai di pensare a quella piccola lettrice che, un ventennio fa, muoveva i suoi primi e cauti passi in un'immensa libreria piena delle sue immense storie. Spiando dal basso ripiani che nemmeno riuscivo a raggiungere, curiosavo, senza meta e fretta, tra dorsi rilegati che mi parlavano di macchine infernali, cimiteri viventi e sguardi che uccidono facendo furore, fuoco e fiamme. I miei amici leggevano libri stupidi, io invece mi trattavo bene già da bambina. Andavo a casa con un tascabile: solo Stephen King. Mi mettevo sul letto e cominciavo a leggere:
E’ stato allora,in quella vita, che ho letto Shining. L'amante dei lieto fine che era in me, non sarebbe stata accontentata però. Chissà a quella bambina come sarebbe parso, allora, questo Doctor Sleep? Ho pensato questo, leggendolo, e mi sono detta che quella bambina che, da qualche parte vive ancora in me, l'avrebbe apprezzato, molto. Proprio come ho fatto io da grande. Il precedente, Joyland, era un'opera piccola con una grande maturità ma che non ho apprezzato a pieno.
Questa volta, stranamente, siamo al cospetto di un'opera grande sicuramente di più in cui Stephen si diverte ancora a giocare coi mostri, il soprannaturale, il trenino degli orrori. Si sente la differenza con il “vecchio King”.
Questo è un King anziano che scrive una storia nelle corde del King giovane. Una lotta contro il tempo, un viaggio nel tempo, i cui round e le cui tappe sono scandite in maniera leggermente più studiata e macchinosa del solito.
Qualche difetto c'è, ma il lettore finisce per limare di suo anche quello che non va. Il lettore, io.
Torna il piccolo Torrance che abbiamo conosciuto in Shining. Kubrick o King, film o libro, cambia poco: il primo finisce nel gelo, il secondo nel fuoco di una caldaia esplosa, ma per Danny non c'è pace comunque.
Sopravvivere è una cosa, vivere è un'altra. Come può farlo, lui che ha visto il padre impazzire, l'Overlook bruciare fino alle fondamenta, la madre spegnersi fino a sparire, in nugolo di mosche in volo sul cattivo odore di antichi incubi e rinnovati deliri. Non può, ma l'alcool aiuta: fare a botte, andare a letto con totali sconosciute, tirarsi giù dal letto e aggrapparsi alla tazza del water, per vomitare, vomitare e vomitare, fino a perdere l'anima, aiuta a non sentire le cose che il buio gli sussurra. Era il segreto di Jack Torrance, e certe cose si tramandano nel sangue. I primi capitoli hanno un elevato tasso alcolemico nell'inchiostro; creano un disorientamento che è una piacevole ebbrezza. Ad ogni pagina non sai esattamente dove ti troverai. Con chi, con cosa. E in che anno. Danny diventa Dan, in un altro Stato nasce Abra. Il primo, ormai adulto, è un uomo che tardi ha imparato a confessare agli altri le sue debolezze: gli Alcolisti Anonimi l'hanno condotto in salvo. L'altra, invece, ha imparato a pensare nella testa di Dan ancor prima di parlare: bambina silenziosissima, prima di svegliarsi in lacrime nel cuore della notte, con il peso di un presentimento che, neonata, non può condividere a parole con gli affettuosi genitori e una curiosa bisnonna d'origini italiane. Ha pianto nella sua culla, ha urlato con tutta la furia contenuta nei suoi minuscoli polmoni, ma l'impossibile è avvenuto lo stesso. I due giganti sono crollati fragorosamente e, solo allora, lei ha smesso. L'undici settembre, Abra mostra al mondo la sua straordinaria luccicanza e Dan capisce che se lui è una torcia, quella piccolina è un dannatissimo faro umano. I tempi sono molto dilatati: da un capitolo all'altro, possono passare mesi, addirittura anni.
Stephen King sa essere piuttosto prolisso, e a me sinceramente piace proprio così, con le sue parole splendidamente di troppo. Finché Abra e Dan s'incontrano, seduti sulla panchina del parco, all'uscita della biblioteca comunale: vicini, ma non troppo. Una ragazzina e un uomo adulto: sapete com'è, se ne sentono tante, in giro... Comunicano mentalmente, comunicano tanto. Tra di loro, ma, soprattutto, a quel lettore che, con interesse, apprensione e sentimento, segue il pericoloso apprendistato di Abra e la coraggiosa espiazione di Dan. Una panchina in un parco, una sedia al capezzale di un malato: Dan come il Dottor Sonno. Tra i piedi, il misterioso Azrael: un gattone grigio, che non a caso porta il nome dell'angelo della morte, con un terrificante sesto senso e tanto di non detto che meriterebbe, per me, di essere raccontato in una novella a sé, un giorno. Quella Abra, che non abbandona mai il suo peluche e che con il potere della mente attacca le posate al soffitto.
Poi…..Il Vero Nodo. Rose, il loro carismatico leader, ha la sensualità, gli amanti e gli anni di una millenaria vampira, il linguaggio colorito di un pirata, un cappello a cilindro che sfida la forza di gravità. Eccessiva, energica, focosa. I suoi complici sono al di sopra di ogni sospetto. Vedendoli, infatti, penseresti a un paio di tranquilli e noiosi pensionati, con l'hobby per la caccia all'uomo. Pensionati, o in attesa del pensionamento.
Billy Freeman, il dottor John Dalton, Concetta… luccicano, tutti quanti, come, nel primo volume, faceva il saggio e lungimirante Dick Halloran. Dopo tanti anni, Doctor Sleep è un secondo capitolo che non aspettavamo, non un sequel in piena regola. Molti personaggi sono diversi e le intenzioni sono diverse, proprio come i toni adoperati. King ritorna all'Overlook, esaminando quello che ne resta. Brutti ricordi, fantasmi evanescenti.
Di Shining, da bambina, ho avuto paura. In questo caso, la paura provata era di un altro tipo: paura di andare avanti, di portarlo a termine. Di trovarmi a leggere un epilogo così emozionante, così bello, così definitivo. Paura di vedere svanire la luccicanza in Dan e di veder balenare, per una volta, un tremulo lucchichio nei miei occhi, mai stanchi di cotanta maestria.
E' chiaro e ovvio che in Doctor Sleep molti cercheranno i piccoli piaceri o la piccola malignità comparativa di chi affronta un sequel, e qualcuno proverà a mettere in connessione ogni riga con Shining.
L'approccio è più che legittimo, naturalmente: ma l'invito è quello di provare a leggere Doctor Sleep senza il peso del libro precedente. Shining è un grande romanzo sulla paternità, la diversità, la solitudine. Doctor Sleep è altra faccenda. Anche Doctor Sleep è un libro sulla paternità, come molti di King: credo che uno dei motivi per cui King non ami la versione cinematografica che Kubrick trasse da Shining risieda proprio nell'aver tagliato via la complessità del rapporto che lega Jack Torrance a Danny. Jack è facile preda dell'entità che possiede l'Overlook perché è un alcolista, ed è un alcolista perché a sua volta è stato un figlio infelice ed è un uomo fragile e spaventato dalla sua stessa rabbia. Prima di diventare il "Dottor Sonno", Danny passa attraverso la stessa paura e vive la stessa fragilità: non solo perché, finita la terribile avventura dell'Overlook, alcuni dei suoi spettri sono tornati a fargli visita, ma perché quell'incontro finale, quel lampo in cui il padre riesce a dominare l'oscurità che lo ha imprigionato per tornare a dimostrargli amore (e altro non dico: chi vuole rilegga Shining, senza guardare il film) pesa ancora sul suo cuore. Sarà un bambino a suscitargli l'orrore verso se stesso e la sua esistenza allo sbando. Sarà un'adolescente, Abra, a restituirgli il senso e il fine della luccicanza e a portarlo a un'ulteriore, definitiva riconciliazione col suo essere figlio e il suo essere, sia pure non carnalmente, padre.
Doctor Sleep è questo e altro. Chi ama il vecchio tocco kinghiano sarà lieto di ritrovare i ritmi serratissimi negli scontri con i vampiri psichici del Vero Nodo, che trovano nutrimento nella luccicanza e in chi la possiede. Rose Cilindro e i suoi seguaci sono, sì, villani, ma sono anche antagonisti sdruciti, crudeli ma infelici, relitti che percorrono le strade americane in camper esattamente come altri reduci di bei tempi andati. Fanno paura, e fanno anche pena: e il duello mentale fra la giovanissima Abra e Rose lascia anche un lievissimo moto di empatia verso la seconda, che non è semplicemente una regina nera sfavillante di perfidia, ma anche un'ombra. Poi ci sono le zampate di King, quelle che ti stringono il cuore di lettore, come il tocco di Danny che allevia il passaggio dei morenti: perché a questo serve (anche) la luccicanza, a rendere meno dolorosa la morte, a dare serenità a chi attraversa i mondi, a stemperare la paura di andarsene. Valgono, da sole, il libro. Sarebbe bello concentrarsi su questo e non sui confronti fra un romanzo e l'altro: nell'impossibilità di farlo, godetevelo. E' un gran libro, se non si fosse capito. Doctor Sleep rimarrà una delle storie meglio narrate in assoluto.