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GIUDIZIO SOSPESO
Non è difficile emettere una sentenza definitiva su Oliver Ryan, l’antipatico protagonista del noir della sceneggiatrice dublinese Liz Nugent, classe 1967, qui al suo esordio nella narrativa. Non è difficile, perché prima di arrivare in fondo alla storia, siamo chiamati ad ascoltare un gran numero di testimoni che ci dipingono lo scrittore di successo dai modi garbati e di bell’aspetto come un mostro e infine a confrontarle con la versione dei medesimi fatti dello stesso Oliver. Stando a quanto ci dicono gli altri egli è indubbiamente un “mostro”: cosi lo definisce Veronique che ha avuto modo di conoscerlo da giovane come ospite/ lavoratore nella sua azienda vinicola, e più o meno tutti sono concordi nel darne un’immagine ferocemente negativa. L’amante vicina di casa Moya, un’attrice mediocre non più giovane, ci racconta le umiliazioni da lui subite durante gli anni della loro relazione, l’amico gay di gioventù di lui innamorato vanamente ricorda il dolore suo e quello della sorella Laura, una giovane piena di vita, da Oliver abbandonata e spinta al suicidio, il fratello autistico della moglie Alice racconta con il suo linguaggio infantile la malvagità del cognato che lo ha cacciato di casa e ha costretto l’amata sorella ad abbandonarlo in un istituto. Ma forse la testimonianza più schiacciante è la voce costretta al silenzio della moglie Alice, una donna generosa e fedele al coniuge, costretta in un letto d’ospedale in coma dalla violenza dal marito. Eppure il giudizio a un certo punto resta sospeso: la parte visibile del ritratto è di molto inferiore a quella nell’ombra. Tanto più che neppure lo stesso Oliver sembra conoscere fino in fondo se stesso, anzi dopo aver tentato inutilmente di venire a capo del suo stesso enigma pare aver rinunciato a risolverlo. Infatti la sua versione dei fatti non smentisce quanto gli altri raccontano ma dietro la verità indubitabile degli eventi vi è una malvagità che sarebbe troppo semplice ridurre a mero opportunismo. Oliver del resto non può ambire neppure ad essere il classico malvagio ammaliante nella sua efferatezza totalizzante: egli infatti ha sofferto da bambino, perché il padre l’ha abbandonato per una nuova famiglia, ha amato sinceramente la giovane Laura, si è affezionato in Francia a un bambino e al nonno di lui. Una sorta di bontà inespressa ne mette in crisi lo statuto di cattivo al di là della tragedie provocate dai suoi calcoli cinici. Se neppure il colpevole difende la propria innocenza, la sentenza di condanna è sicura, eppure non si può fare a meno di pensare a una frase di Salvatore Satta, noto giurista« Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo»
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