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La Signora e il suo setaccio
E va bene. Ce l’hai fatta, Joanne. O preferisci Joe? Va beh, facciamo J.K. Perdona la confidenza, ma ho un po’ temuto, e nel bel mezzo di questo oblio, di questo vasto senso di perdita provocatomi da un brutto libro mi sono sentito vicino alla tua sorte. Ma stavolta ci siamo, te l’avevo detto che t’avrei aspettato, e credo ne sia valsa la pena.
Credo ne sia valsa la pena. La signora Rowling ha fatto quello che pensavo avrebbe dovuto fare anche nella prima occasione (“Il richiamo del cuculo”), ovvero regolare la pressione sul pedale della frizione per non far sobbalzare la macchina. In questa occasione il suo milionario piedino ha saputo essere notevolmente più delicato sul pedale, e la marcia non ha grattato. L’ha innestata con un movimento molto più fluido, tanto quanto quello della sua eroina Robin Ellacott che in questo nuovo episodio si rivela un’esperta pilota. E forse quel piedino è stato mosso da un sentimento più genuino, più ponderato e più gradevole, un sentimento a metà tra l’onestà e la voglia riparatrice che sfocia nel mezzo espressivo. Un’onestà che ha portato la signora Rowling a proporre un romanzo, “Il baco da seta”, che fa della meta-letteratura un modo per redimere, per espiare e sdrammatizzare la triste vicenda che ha avuto come protagonista il primo volume di questa nuova serie e il clima gelido con cui venne accolto, un anno orsono. Inutile rivangare il passato, e quelle che il sottoscritto aveva descritto come fantasmi di speculazioni. La nostra beniamina propone finalmente una meditazione più accurata e più sincera, che prende spunto da un’accadimento autobiografico per impostare una trama basata sul mondo complesso e a volte menzognero, lo abbiamo visto coi nostri occhi, dell’editoria e del mestiere dello scrittore. E la più onesta delle considerazioni che la Rowling ci pone sotto gli occhi, sebbene in sordina, riguarda innanzitutto la banalità di presentare un libro che racconta di un altro libro. La legittimazione avviene in questo modo, zittendo il lettore che sbuffa di fronte all’ennesimo tentativo narrativo che verte sulla narrazione stessa. Lo ammette, è banale, sorpassato, visto in tutte le salse. E noi lo sappiamo, ma sappiamo anche che questa signora ha bisogno di ingranare, ha bisogno di tempo per conquistarsi il cuore del lettore. Ha bisogno che la si lasci lavorare, e basta. E’ la sua modalità d’azione, è graduale, è metodica, ritengo non ci sia bisogno di tirare in ballo i suoi trascorsi, nemmeno di nominarli. Sappiamo che sa farlo. J.K. Rowling, anche questa volta non ha scritto un capolavoro, non ha fatto alta letteratura e non ha la minima pretesa di farlo. Semplicemente inizia a scaldarsi. Prepara la pappa che ci sfamerà per i prossimi dieci anni. Auguriamoci che sia sempre più dolce, considerata la partenza a base di fiele.
“Il baco da seta”, per quanto mi riguarda, è un romanzo sostanzialmente riuscito. Se il luccicante universo dell’alta moda non si addiceva particolarmente alla prosa dell’autrice, suonando un po’ troppo falso, un po’ troppo pantomimico, quello dell’editoria pare invece più affine e meglio indagabile da parte della Rowling, che di case editrici deve averne viste parecchie. Basta lustrini, basta servizi fotografici e diatribe estetiche. La scelta è quella di giocare in casa. Ma l’omicidio letterario, fortunatamente, non sembra prendersi molto sul serio, non è il fulcro vero e proprio della narrazione, e proprio per questo il romanzo scarta al momento opportuno e si allontana rapidamente da una scontatezza che lo avrebbe annientato: nulla al confronto delle incrinature alla base de “Il richiamo del cuculo”. E altrettanto fortunatamente, i personaggi iniziano a camminare da soli, ormai referenziati e lasciati a loro stessi, capaci di intrattenerci con una presa più veritiera e confidenziale sia tra loro che con chi li guarda muoversi nella loro Londra novembrina. Cormoran Strike investiga sulla scomparsa di uno scrittore dai gusti letterari particolarmente macabri, che non lesina ai propri lettori scene di incesto, sbudellamenti, androginie, mutazioni sessuali e perversioni erotiche inaccettabili. Uno scrittore, Owen Quine, che farà la fine –atroce- del personaggio del suo inedito, e impubblicabile, nuovo romanzo. Su questo investiga Strike, affiancato dalla presenza sempre più scalpitante dell’assistente Robin che, stufa di essere relegata ad una scrivania, preme per un lavoro sul campo.
La Rowling, ad ogni modo non prende posizione. Si distanzia notevolmente, e con palese pertinacia, da tutta quella tradizione di thriller filologici che negli ultimi dieci anni hanno monopolizzato il mercato letterario globale. Ci hanno affascinato, inutile negarlo. Ma, in questo caso, l’aplomb britannico della Lady decide di essere superiore a tutto quello scartabellare tra polverosi documenti che è diventato parte integrante del lavoro del giallista. Rowling è benevola e ieratica al medesimo tempo. Scrive con ironia e non ha la benché minima intenzione di ficcare il naso in qualche arcano manoscritto nel IX secolo per trovare un simbolo sfacciatamente pagano o una lugubre citazione satanista solo per costruirci sopra un bestseller con cui pagarci le bollette. Neanche per sogno. Troppa polvere, troppo Hogwarts, basta calamai, basta pergamene. Al diavolo. Lei si inventa tutto. Rowling non ha sfogliato nemmeno un albo illustrato. Ed è qui che sta la discriminante. Gradita o meno, qui sta la differenza tra un’autrice con determinati trascorsi e l’ultimo degli scrittori che si seppellisce nella sezione “esoterismo” della libreria del centro. Il totale distacco dalla metodologia filologica, il disprezzo per l’elegia e per la verbosità dell’occultismo, qui, in questo urlato “non ne ho bisogno”, si cela la differenza che intercorre tra chi rovista e chi usa i propri mezzi. Qui si capisce quanto diverso sia la “costruzione” di un mondo dalla “rievocazione” di uno trascorso. Sono due abilità differenti che in questo caso non si incontrano ma che sono in grado di esaltarsi vicendevolmente. Sono due linee d’azione parallele e distanti che mantengono una dialettica sussurrata con il quale riescono a soddisfare la superficie marezzata e volubile che rappresenta i gusti di un audience sempre più esigente. Non credo si tratti di prendere una posizione, si tratta semplicemente di capire i diversi piani su cui si muove la letteratura e la meta-letteratura. Certo, Rowling manca di mordente storiografico, manca di date, di coincidenze che solo attraverso uno studio cattedratico si possono intrecciare. Ma non credo sia importante. Ciò che conta è che la Signora ci abbia dimostrato che la mente è ancora lucida, che ancora si muove. Forse non con l’agilità di prima ma pur sempre con vivacità. Ed è con questa mente che, seppure con un taglio sobrio e fumoso, riesce a costruire un thriller genuinamente piacevole, in cui il semplicismo viene infine a configurarsi come una scelta ben precisa piuttosto che come un’insicurezza.
Rowling, in definitiva, sta al suo posto. Lo scranno è più stabile, la tavola più ampia, le portate in aumento. Se ne sta lì, non si confonde con gli invitati, la Signora. Sorride amabilmente, ammicca a molti, ma non si fa intaccare da niente e nessuno. Tutto, prima o poi, passa attraverso il suo setaccio. E perdoniamola se le maglie erano ancora un po’ larghe, si era solo all’inizio. Noi attendiamo il bicchiere della staffa. Lo sapiamo tutti, in fin dei conti, che l’ultima bevanda servita dalla nostra anfitriona verrà filtrata con la seta.
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