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L'impazienza di Giobbe
Quando Wulf Dorn torna con un nuovo romanzo, mi carico di aspettative. E forse, questo è un errore, perché in genere l’aspettativa – tanto più se è alta – spesso produce delusione.
“Phobia”: il titolo preannunciato su di me ha agito come lo specchietto per l’allodola, per il conclamato interesse che nutro nei confronti del thriller psicologico.
Da brava allodola, mi sono dunque precipitato in libreria per procurarmi lo specchietto. Che ha funzionato, se misura della riuscita di un libro sono i tempi di lettura e l’incapacità di staccarsi dalle pagine (quelle di “Phobia”, quasi, si girano da sole).
Il romanzo è stato annunciato come sequel de “La psichiatra”, il primo fortunato romanzo che ha consacrato Dorn come stella della letteratura di tensione. In realtà, la connessione con il primo romanzo è piuttosto estrinseca, in quanto “Phobia” si limita a condividere con “La psichiatra” il personaggio di Mark Behrendt, il medico che qui affianca l’amica d’infanzia Sarah, alle prese con un imprevisto che sconvolge lei e la quiete del quartiere di Forest Hill.
Infatti, una notte, il marito Stephen fa ritorno a casa… solo che… solo che non è lui a tornare! Perché l’intruso, che è vestito come Stephen (“E’ un pazzo. Indossava il vestito di Stephen e si comportava come se fosse mio marito”) e conosce perfettamente tutte le abitudini di famiglia, in realtà è “la versione da incubo di suo marito”.
Chi è l’orrendo personaggio (“La maschera del suo viso pieno di cicatrici apparve ancora più orribile e finta”) che fa irruzione nella vita della giovane donna e che nel finale le chiederà di essere chiamato Giobbe?
Cosa vuole da Sarah?
Che fine ha fatto Stephen?
Come si può evincere da queste premesse, la trama è avvincente e procede con ritmo serrato (con un calo, forse, nella parte centrale, con la comparsa di Mark che in questa storia agisce sotto tono, un po’ come fa l’incantatore con i serpenti).
Il mio dubbio riguarda principalmente la tenuità della dimensione psicologica del romanzo. Sarah soffre di una fobia generica (“Il medico aveva definito questa sua paura irrazionale un disturbo fobico e le aveva consigliato un terapeuta con cui approfondire le cause”), che la allontana dal lavoro e che ha la propria origine nel rapporto coniugale (“Tutto quello che desideravano all’inizio – una casa, dei figli, il matrimonio – sono diventati insignificanti per entrambi”). Il romanzo è un percorso verso la consapevolezza, ottenuta attraverso sofferenze ed eventi scenografici piuttosto che attraverso snodi clinici e terapeutici, e perviene a una conclusione: “Perché l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa”.
L’aspetto più apprezzabile – oltre all’intreccio, che è comunque occasione per una buona lettura d’evasione nella tensione - è il tentativo che Dorn compie per ricondurre eventi sorprendenti e cruenti a una razionalità di fondo che si nasconde dietro a fatti in sé terrificanti. Con l’ammonimento implicito a non dare nulla per scontato, a non sottovalutare le opportunità che la vita offre, a non sprecare le occasioni della felicità, che non viene concessa a tutti da un destino cieco, iniquo e spesso crudelissimo.
Bruno Elpis
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La tua recensione mi è piaciuta, ben ponderata, che non inneggia al capolavoro solo perché 'le pagine si girano da sole' . Mi hai fatto capire anche che l'autore non è un maestro di stile: grazie.
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Certo e' che il finale con Mark mi ha fatto gioire di entusiasmo, l'ho dovuto leggere tre volte per capirlo ma poi ci sono arrivata. Non vedo l'ora che esca il prossimo, che immagino sara' centrato su Mark...e quella placca al polso :-)