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Il ladro di Maigret
Maigret si gode l’inizio della primavera sulla piattaforma esterna dell’autobus, ma un ladro si incarica di rovinargliela rubandogli il portafogli. La seccatura si trasforma in complicazione quando, il mattino dopo, rispuntano sia il portafogli, sia il ladro, che si rivela essere poco più che ventenne. Si chiama Ricain e, prima di condurre il commissario nel suo appartamento dove giace la moglie morta, racconta di essere un aspirante sceneggiatore e giornalista che sta affondando in una lacrimevole storia di insuccessi e frustrazioni. Prende così via l’indagine che si muove per piccoli passi in un ambiente che ha a che fare con il cinema di serie B: una serie di pretendenti artisti e un piccolo produttore che se ne circonda cercando di ricavarne il più possibile. Come spesso accade in Simenon, si tratta di figure mediocri: giovani ambiziosi dal dubbio talento, uomini e donne maturi che si accontentano di sfruttare la situazione, tutti quanti con un evidente tendenza ad alzare il gomito e a fregarsene del proprio prossimo. Il loro luogo di ritrovo è il ‘Vieux pressoir’, un ristorante in cui Maigret finisce per trasferirsi (sbafando assai) così da studiare con cura la poco commendevole compagnia e dissipare uno dopo l’altro i dubbi che lo accompagnano per quasi tutto il libro. La conclusione è la più ovvia, ma Simenon è bravo a portarsi a spasso il lettore facendolo nel contempo immergere in uno dei tanti bassifondi di una Parigi che non esiste più, disegnando una classica indagine di Maigret in cui la brevità non va a scapito degli aspetti narrati, inclusa la psicologia dei personaggi. Forse non uno degli episodi migliori in assoluto, ma comunque un solido giallo in cui, come sempre, il pensiero ha una netta prevalenza sull’azione (forse pure troppo) e dove la variazione sul tema è data dalla comprensione, ai limiti dell’affetto, con cui Maigret tratta l’indecifrabile (e insopportabile per chiunque altro) Ricain.