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Georges Simenon: “La vedova Couderc”
Se la grande borghesia è marcia, come la famiglia d’origine del protagonista maschile, la piccola è un nido di vipere che farebbero qualsiasi cosa per riuscuire a mettere le mani sulla ‘roba’. E’ questo un tema costante nei romanzi di Simenon in cui non compare Maigret (ma anche quando in scena c’è il suo personaggio più conosciuto, lo stesso motivo di fondo viene assai spesso rieccheggiato): in una provincia ottusa – qui siamo dalle parti di Montluçon, nel bel mezzo della Francia – ad essere dominatrice incondizionata è la grettezza, trionfante su di un panorama umano senza possibilità di redenzione. Jean, appena scarcerato, finisce nel ginepraio della famiglia Couderc, i cui membri sono pronti a tutto in attesa dell’eredità (decaduta, peraltro) che arriverà alla morte del padre rimbambito e sessuomane: due sorelle di poca intelligenza che si dibattono in matrimoni mediocri e la vedova del fratello, ex serva, passata di grado grazie a un’inopinata gravidanza, che guida con polso fermo la fattoria avita. E’ lei che coinvolge Jean, facendone un’amante occasionale – anche se potrebbe essere suo figlio - e un uomo di fatica di notevole efficienza: le piccole ma numerose incombenze che il giovanotto deve affrontare ogni giorno danno una momentanea requie agli incubi del suo passato, in una stasi che si riflette nell’immobilità della natura circostante. Dura poco però, perchè lentamente gli intrighi attorno a lui e la passione per la giovane Félicie (che non si capisce mai se c’è o se ci fa, se è innocente, tonta come la madre o sottilmente perfida) finiscono per risvegliare i vecchi fantasmi e lo psicopatico che è in lui. Forse nel finale c’è qualche forzatura nell’azione – il libro è di sole centosessanta pagine – ma quello che ne esce è un quadro nerissimo, costruito con un abile succedersi di rivelazioni sul passato dei singoli personaggi narrate con una lingua semplice ma sempre capace di coinvolgere: ognuna di queste rivelazioni è un gradino in discesa e questo indipendentemente dal fatto che si tratti anche di un passo verso la tragedia finale. Con simili premesse, è inevitabile che al lettore sia impossibile identificarsi con qualcuna delle figure che si aggirano per il romanzo: il suo posto, allora, è di mettersi a fianco dell’autore e analizzare con freddezza assieme a lui il piccolo microcosmo che viene rappresentato. Attenzione, però, perché il pessimismo di Simenon sarebbe capace di schiantare anche il più inguaribile degli ottimisti, anche perché non c’è, a fare da controcanto, la tranquilla bonomia del commissario con la pipa.