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Zombie, apocalisse e filosofia
A mio avviso, posso affermare con certezza che questo libro è bello solo per un quarto.
L’atmosfera post-apocalittica è resa all’inizio in maniera egregia: morte, desolazione, distruzione, la perenne aura di solitudine e il degrado di un mondo morto si sentono e si percepiscono fin dentro le viscere e le descrizioni raccapriccianti di uccisioni raggiungono il loro macabro e sanguinoso scopo e vale lo stesso anche per il lento e graduale processo di formazione del protagonista R, uno zombie diverso e molto più sensibile dei suoi compagni.
E inoltre, lo dico col cuore, mi sono piaciuti moltissimo i momenti di intimità fra R e Julie (sebbene lei sia un’odiosa ochetta superficiale), in cui pian piano lei vince la diffidenza nei confronti di lui, permettendo così la nascita fra loro di una tenera amicizia.
Mi è spiaciuto un po’, però, che il sentimento di R per lei dipenda dal fatto di aver mangiato il cervello del suo ragazzo, assorbendone in questo modo i ricordi e sentendo un istintivo desiderio di proteggerla. Voglio dire, da una parte è una cosa molto toccante (intendo aver ricevuto i ricordi, non l’ingestione del cervello!), ma secondo me sarebbe stato più bello se la sua infatuazione fosse stata un tantino più innata, personale, senza alcun intermediario, indipendente.
Vabbè, questi son dettagli.
Il vero problema arriva nei tre quarti restanti del romanzo: da semplice e tormentato zombie, R diventa peggio di Umberto Eco con la logorrea e ci propina infinite pagine di filosofia ed elucubrazioni mentali sul suo cambiamento interiore (che, devo ammettere, gli fa perdere tutto il suo fascino iniziale), dei ricordi dell’ex ragazzo di Julie (quelle pagine sono a dir poco insostenibili da tanto sono soporifere), del giro turistico infinito di R per una delle poche città di sopravvissuti, senza nemmeno spiegare in maniera dettagliata come l’umanità si è organizzata per sopravvivere alla situazione post-apocalittica… Io non sono riuscita a immaginarla.
Il tutto degenera talmente tanto, che durante il proseguimento della lettura non provavo nemmeno il minimo senso di scuotimento durante i pochi colpi di scena o i momenti d’azione cruenta, per colpa della sonnolenza suscitatami dalle pagine precedenti. Alla fine mi ero trasformata pure io in uno zombie, seduta sul divano, il libro tenuto mollemente fra le mani, con la bavetta alla bocca, la testa inclinata di lato, gli occhi socchiusi e il corpo dondolante.
Per di più, mi ha infastidito parecchio lo stile dell’autore (o come l’ha reso la traduttrice, non lo so) che è molto puerile, ricco di quegli odiosi termini tipicamente giovanili che tutte le volte che li sento mi sanguinano le orecchie, quando penso che ci sono voluti secoli per creare e affermare una comune lingua come la nostra che viene guastata così.
Ma non è finita qui: in questo libro vi sono contenuti tanto stupidi e ridicoli, come ad esempio la scuola di zombie, con tanto di maestri, banchi, aula e cattedra (manca solo la lavagna), dove i piccoli della specie imparano a mangiare gli umani! Ma dai! Nemmeno un cartone animato partorirebbe un’idea simile!
Quanto avevo nostalgia della prima parte!
Insomma, avevo grandi aspettative, non vedevo l’ora di leggerlo, mi aspettavo una storia dolcissima e romantica (e, credetemi, di romanticismo ce n’è ben poco) e invece mi ritrovo un misto fra un trattato filosofico platonico, una guida turistica e un memoriale condito con un linguaggio abominevole e contenuti buffoneschi!
E il bello è che ne hanno pure tratto un film!
Tra l’altro si dice che “Warm bodies” sia la “trasformazione allungata” di un racconto online di grande successo scritto dall’autore in persona.
Secondo me se fosse rimasto un racconto avrebbe fatto più bella figura.
Almeno si evitavano un sacco di parti inutili.
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