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Gelato al sugo di carne
La struttura di questo romanzo ricorda molto: “La bambina che amava Tom Gordon”, dello stesso autore. Due romanzi che parlano con rispetto dell’infanzia. Due romanzi costruiti sul niente. Due romanzi insoliti, appassionanti. Costruire sul niente (un niente relativo, ovvio) per qualcuno è un difetto. Per me è un’arte rara, che apprezzo molto.
Gran parte del romanzo è occupato dal personaggio principale: Jessie, una donna imprigionata in un letto da un paio di manette. Il marito, Gerald (sì, il gioco l’ha inventato lui), muore quasi subito. L’intera narrazione si svolge per la maggior parte in questa stanza da letto, che si trova in una casa isolata, molto isolata. Nessuno può aiutare Jessie a liberarsi. I ricordi, le emozioni e il corpo di Jessie; un cane e un’apparizione notturna costituiscono le presenze vive principali dell’intreccio. Poi c’è la stanza, con gli oggetti che contiene. Una mensola. Un bicchiere. Un telefono. E quelle manette.
Si tratta di un romanzo claustrofobico, senza ombra di dubbio. Costruito sul niente, imprigiona senza scampo il lettore. La tensione cresce e si trasforma, rende tangibile ogni minimo particolare, fa lievitare un piccolo spazio fino a trasformarlo in un mondo da incubo. Il corpo della protagonista, quasi immobile, si trasforma in un vortice di azioni, reazioni, sensazioni. E poi c’è la memoria; ma anche quella ruota intorno a un solo centro di gravità.
L’infanzia di Jessie. Il suo occhio infantile. King è stupefacente nel tradurre e raccontare il pensiero dei bambini. Per la piccola Jessie le emozioni adulte sono “stravaganti cocktail”, miscugli poco appetitosi di ingredienti non compatibili con il buon gusto infantile, come “gelato e sugo di carne, pollo arrosto ripieno di caramelle al gusto di agrumi”. Incatenata in un letto, Jessie può finalmente tornare a rivedere i personaggi della sua infanzia con i suoi occhi di adulta, per mettere in parole l’evento catastrofico che forse l’ha accompagnata fin là, in quel letto che la imprigiona e la tortura.
Lo stile di quest’opera è spesso eccellente e originale (ho apprezzato molto le espressioni messe in risalto dalle parentesi), ma a volte si perde e perde tono, soprattutto nelle similitudini troppo pesanti (”come se si fosse immersa in una piscina popolata di cuccioli di squalo e se ne fosse accorta appena in tempo da salvarsi le estremità inferiori”). Ma l’espediente narrativo che più ho apprezzato sono le “voci” della protagonista, che esprimono alla perfezione il dramma e il punto di vista femminile (un’altra delle caratteristiche più importanti del romanzo): “«Sei noiosa, Mogliettina», la interruppe Jessie. Non ricordava se avesse mai risposto a voce alta a uno di quei suoi interlocutori interiori. Si domandò se fosse un segno di pazzia. Concluse che non gliene importava un fico secco, non in quel momento.”