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L’orrore cosmico
“L’emozione più vecchia e più forte del genere umano è la paura, e la paura più vecchia e più forte è la paura dell’ignoto.”
In questa frase del tutto emblematica, che Lovecraft ebbe a scrivere in un suo saggio sull’orrore nella letteratura, si riassume quello che è il filo comune, la base logica di questo romanzo breve che a farlo rientrare nell’ambito del fantastico sarebbe troppo semplicistico e finirebbe con lo svilirne il contenuto, non esattamente classificabile in un genere, ma di più ampia, concreta e profonda portata.
Potrei dire che in Lovecraft la paura non è il fine, ma il mezzo, il modo con cui parlare dell’uomo e della componente più atavica del suo inconscio, l’uomo che brama di conoscere sempre di più, ma attratto e al tempo stesso atterrito dall’ignoto. Il viaggio avventuroso nell’Antartide finisce così con il diventare un percorso dentro il proprio “io”, alla scoperta di verità non tutte positive, scoperchiando quella patina di essere integro, tutto portato alla conoscenza, ma in realtà completamente fragile, eppure eternamente combattuto fra il desiderio e l’angoscia di sapere.
Le montagne della follia è scritto in prima persona, quasi che l’autore volesse esporre a sé e agli altri il frutto della sua autoanalisi, a tratti esaltante, altri e più spesso impietosa, in un tripudio di fantasia in cui le lontane terre del Polo Sud custodiscono un segreto terribile, tale da mettere sull’avviso qualsiasi spedizione voglia là avventurarsi, soprattutto nel caso decida di esplorare questa immane catena montuosa, dalle altezze stratosferiche, a cui il protagonista ha dato un nome, che nella sua apparente semplicità, ricorda allucinazioni, angosce, terrori.
Là si troveranno i resti, giganteschi, di una civiltà aliena, di altri esseri che raggiunsero la terra milioni di anni fa e che poi, come sempre accade nell’evolversi del tempo, finirono con lo scomparire, forse per le glaciazioni, o forse anche e soprattutto per il sopravvento di altre entità spaventose e orrende, un autentico pericolo per l’attuale umanità.
La descrizione di questi resti, dei reperti archeologici, è estremamente minuziosa, come se l’autore li avesse effettivamente davanti agli occhi, ma se questo è un espediente di sicuro effetto sfocia però in una caratteristica non certo positiva di Lovecraft, e cioè la leziosità, una mancanza di senso del limite, che rende sovente greve la lettura, rischiando anche di far scemare la notevole e palpabile tensione creata con particolare e indubbia capacità.
L’opera, inoltre, è un continuo omaggio a Edgard Allan Poe e in particolare a Storia di Arthur Gordon Pym, dichiarata fonte di ispirazione, con frequenti richiami come nel caso dell’incomprensibile verso Tekeli-li! Tekeli-li!, una sorta di messaggio non di amicizia, ma di pericolo certo e devastante.
Le scoperte che verranno fatte nel corso di questa avventura, l’inimmaginabile e sconvolgente orrore finale che si insinua nel lettore come un ago che penetra nel cervello attraverso il cranio, l’atmosfera gelida e irreale della terra antartica sono il meglio di questo romanzo e fanno dimenticare la grevità di certe descrizioni, di cui prima ho accennato.
Ma al di là dell’aspetto fantastico dell’opera rimane la convinzione che con l’approfondimento della conoscenza scientifica l’umanità non potrà che pervenire all’autentico dramma riveniente da un universo freddo, impietoso, del tutto impersonale e caotico, cioè finirà per approdare all’orrore cosmico. E questo è un messaggio su cui si può dissentire, come si può anche essere d’accordo, ma sul fatto che questo rischio potenziale possa essere poi sopportato da questo essere fragile che è l’uomo non dovrebbero esserci dubbi, perché sarebbe la fine di una specie, quale la nostra, sconvolta da quella follia propria delle montagne del titolo.
Da leggere, anche e soprattutto alla luce di questo lacerante monito.
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