Dettagli Recensione
Il brutto anatroccolo
Il giornalista Domenico Cigno, protagonista del romanzo “La fame del cigno”, a firma dello scrittore casertano Luca Mercadante, è tutt’altro che persona gradevole, come lo sono ben altri eroi di carta, davvero difficile definirlo fisicamente piacevole e attraente. Ha compiuto il percorso inverso del brutto anatroccolo della fiaba famosa di Andersen, che da palmipede piccolo e sgraziato si ritrova, nella maturità, uccello flessuoso, elegante, aggraziato, neanche si riconosce mirandosi in uno specchio d’acqua. Il nostro Domenico, al contrario, in gioventù è stato davvero un cigno, o almeno un ragazzo normale, con un qualche talento per lo sport, era uno sportivo, una sicura promessa del pugilato, con fisico adeguato al ruolo e una castagna niente male. Nella maturità, persi per strada i sogni di gloria tirando pugni, è diventato giornalista di successo, un segugio investigativo di razza, tutti i media si disputavano la sua firma e l’ esclusiva dei suoi servizi. Poi qualcosa gli è successo, nella vita oltre che nello sport una valanga di cazzotti deve averlo tramortito, ha iniziato gradualmente ad azzuffarsi di brutto con il proprio peso, anche senza guantoni, avendo la peggio, e ad aver sempre più fame, cosa che per un atleta è quanto di più deleterio gli possa accadere. Da cigno, passa a diventare brutto anatroccolo, peggio ancora, un’oca all’ingrasso. Tuttora lo devasta, non più giovanotto ma pur ancora giovane cinquantenne, una grave bulimia ingravescente, il mezzo con cui palesa in tutta la sua bruttezza il proprio disagio esistenziale. Per capirci meglio, Domenico Cigno una normale pizza margherita la piega “a fazzoletto”, ma non per degustarla come l’omonimo “street food” napoletano, ma per versarsela direttamente in gola in maniera rapida e, chiaramente, nevrastenica, da fuori di testa. Questo non è più un disturbo alimentare, è l’urlo d’orrore di un’anima devastata. La sua non è fame di solo cibo, è autodistruzione metodica a base esponenziale.
“La fame del Cigno” è un ottimo lavoro, una lettura avvincente, un libro interessante.
Anche originale, diverso dai soliti gialli investigativi, vario e variegato, un racconto che è più un’analisi sociale di un certo territorio e del degrado ivi esistente, che un noir vero e proprio. Davvero un ottimo libro, da leggere, da gustarsi con calma, specialmente per chi non conosce la location dove è ambientata la storia, un racconto acuto, profondo e interessante, scorre in maniera rapida ed essenziale. Non un noir fine a se stesso, con delitto, investigazione e soluzione dell’arcano, per quanto il mistero sia pregevole e stimolante, tutto il costrutto induce invece a riflettere e a osservare con occhio diverso quanto troppo spesso fingiamo di non vedere. Per esempio, neanche ce lo chiediamo, cosa fanno, come vivono, quanto è disgraziata e miserabile la loro esistenza, intendiamo quella di nugoli di ragazzine nere scollacciate e succintamente vestite in qualsiasi stagione dell’anno, distanziate pochi metri l’uno dall’altra, prostituite a forza e in eterna attesa d'infiniti clienti ai margini di una strada di grande scorrimento nella periferia suburbana. Un testo analitico, curato nello sviluppo della trama fin nei particolari, una storia originale, fuori del comune, che mette insieme delinquenza organizzata d'infimo livello, razzismo, violenze, fatti d'immigrazione clandestina, volte in particolare a rifornire di materia prima i racket della prostituzione, florida attività criminale a danno di intere popolazioni dell'Africa. Giovani africane rapite, schiavizzate e brutalizzate, costrette a vendersi per strada, senza voler far cenno poi ad altre pratiche bestiali di dominazione di genere in uso presso quei popoli come l’infibulazione. Cosa possa succedere nella testa di una ragazza che subisce tutto questo non possiamo neanche immaginarlo. Il tutto che avviene realmente, e non nella fantasia dell’autore, in una zona ben precisa, quella di Castelvolturno in provincia di Caserta, e gli immediati e fangosi dintorni del gran fiume campano. Qui, pur essendo bianco, vive anche Domenico Cigno, che sconta a caro prezzo, e su se stesso, il proprio fallito tentativo di emanciparsi dalla nefasta influenza del genitore, sfidandolo e cimentandosi nel pugilato anziché nelle arti marziali di cui il padre è un esperto maestro. Da qui lo scherno paterno, perché esistono genitori così, che non ti toccano mai con un dito, nessuna violenza o coercizione, e però lasciano trasparire ogni giorno quanto rimpiangano con tutto il cuore non il momento in cui ti hanno messo al mondo, fanno di peggio, rimpiangono di averti riconosciuto, e fanno dell’assenza nella tua vita di bambino sensibile, di ragazzo delicato, di giovane atleta, l’unico modo per sopportarti. Ti rendono un mendicante in cerca di affetto, di amore, di stima, d’approvazione, che non gli viene mai riconosciuta. Forse a qualcuno questo non sembrerà poi tutto questo grande inferno, al punto da trasformare un cigno in una balena spropositata. Ma bisogna rendersi conto che l’inferno è fatto a gironi, a ciascuno il suo. Evidentemente quello di pertinenza di Domenico Cigno è il terzo cerchio, dove il buon Dante aveva posto i golosi perché subissero la giusta punizione, custoditi da un papà Cerbero. Domenico Cigno capirà a sue spese, rischiando la pelle in prima persona, che se vuole riuscire a rivedere le stelle, a salvarsi, deve farlo da solo.
A fatica, con dolore, a digiuno: e in ogni caso, senza alcuna garanzia, non è detto che troverà la luce in fondo al tunnel. Magari però uno specchio d’acqua sì, dove un brutto anatroccolo potrebbe riconoscersi cigno, chissà.