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Indagini mediocri per un ispettore mediocre
L’ispettore Ferraro (il nome di battesimo non lo confessa neppure sotto tortura, già ritiene troppo loffio il cognome) è un poliziotto milanese, nato a Quarto Oggiaro e, salva una breve assegnazione in montagna, vissuto sempre nel suo quartiere, dove indaga, senza mai troppa enfasi nel lavoro, su ogni tipo di crimine, dai feroci omicidi ai… furti di mele del suo ortolano preferito. Fa il poliziotto perché crede che questa sia stata l’unica opzione che gli ha offerto la vita, ma se pure svolge le indagini senza entusiasmo (a volte preferirebbe vomitare piuttosto che recarsi in ufficio), lo fa anche senza alcuna infamia o colpevole negligenza, cercando di sbrogliare la matassa che, di volta in volta, gli è capita tra le mani.
In questo volume, che è il romanzo d’esordio della lunga serie a lui dedicata, lo troviamo impegnato in quattro casi, uno per stagione. Indagini che lo impegneranno sugli omicidi di un marocchino, spacciatore di droga, sgozzato brutalmente com’era capitato, settimane prima, al suo cane; di un facoltoso e discusso immobiliarista, investito (intenzionalmente?) in una delle zone più malfamate di Milano, dove non si capisce cosa stesse facendo; di Armandino, un povero vecchio, suo vicino di casa, che non aveva mai fatto male a una mosca; e di una donna, nota venditrice di sigarette di contrabbando, pestata a morte lo stesso giorno in cui la palestra di suo figlio era stata data alle fiamme.
Ferraro, con il contribuito, spesso determinate, dei suoi colleghi, riuscirà a incastrare i colpevoli, ma la sua insoddisfazione lieviterà sino a fargli valutare un’alternativa al lavoro in polizia, alternativa che non si sa a cosa lo porterà.
Questi gialli di Biondillo sono del tutto anomali nel panorama italiano del genere: racconti sottotono di una criminalità di periferia dove gli ambienti spesso desolanti, in cui si muovono i personaggi, fanno da contraltare alle loro personalità, non di rado banali, quando non sordide.
In particolare il protagonista è un uomo mediocre, deluso dalla vita che gli ha portato via il padre quant’era ancora troppo giovane, gli ha tarpato le ali verso diversi sbocchi di carriera e che – adesso che è pure divorziato – si illumina solo nei troppo brevi fine settimana con la figlia Giulia.
Sostanzialmente è privo dei talenti investigativi tipici nei detective della letteratura. Però è tenace e puntiglioso. Non di rado piglia delle cantonate che potrebbero portare a clamorosi errori giudiziari, ma, alla fine, lui e la sua squadra, fanno girare correttamente l’arrugginita macchina della giustizia per giungere alla soluzione sperata.
È circondato da colleghi che sono personaggi da gag comica. Ad esempio l’ispettore capo Lanza, suo diretto superiore, non comprende neppure le ironie, le iperboli, le metafore più blande e, così, se qualcuno osserva che hanno dovuto raccogliere un cadavere con cucchiaino, pensa davvero che sia stato usato quello strumento per il mesto servizio. Tuttavia è assolutamente preciso e circostanziato: “se diceva che era A allora era A. Altrimenti stava zitto”. Insomma ha una mente analitica e priva di alcuna immaginazione, ma, proprio per ciò, è decisivo nel risolvere alcune indagini. Al contrario il sovrintendente Comaschi fa a gara con Ferraro per trovare le battute più corrive e fiacche che non fanno ridere neppure lui, o per punzecchiarlo con frecciatine continue. Spesso è più d’intoppo che d’aiuto, ma anche lui fornisce un contributo non ignorabile. I capi non sono da meno in questi racconti polizieschi, dove la satira scivola volentieri verso lo scherno sarcastico, la critica sociale si confonde con l’osservazione politicamente molto scorretta, la trovata fantasiosa si trasforma in situazione surreale. Insomma, i confini tra il poliziesco investigativo classico e la caricatura sguaiata sono abbastanza labili.
Anche lo stile narrativo si adatta alle situazioni e ai personaggi: il linguaggio e le costruzioni lessicali usati sono spesso disadorni e popolari, non privi di qualche rozzezza espressiva. Le trame – se da un lato ci appaiono più reali di quanto non lo siano certe invenzioni più blasonate, proprio perché la realtà è, il più delle volte, banale – dall’altro peccano di una eccessiva semplicità.
La ricerca costante dell’ironia e della situazione comica con esiti, non di rado, paradossali, richiama alla mente le avventure del bizzarro commissario Sanantonio, protagonista di centinaia di romanzi tra il poliziesco, lo spionistico e la pura farsa strampalata, frutto della fantasia dello scrittore francese Frédéric Dard. Ma Ferraro si muove più terra-terra del suo omologo d’oltralpe: non è un Superman dell’investigazione scientifica; è solo un pover’uomo che cerca di fare il lavoro, per il quale viene pagato, nel modo meno infame che gli riesce.
Da segnalare in questi racconti, la minuziosa descrizione di Milano da parte dell’A. da cui traspare un amore intenso, ma forse mal corrisposto, per la città che ci viene descritta anche nelle sue caratteristiche meno accattivanti e seducenti, tuttavia sempre con un malcelato rimpianto su quello che potrebbe, invece, donare ai suoi abitanti.
Complessivamente, il libro è gradevole e, non di rado, spassoso: riesce pure a strappare qualche risata sincera e ad intrigare con l’intreccio poliziesco, ma, sinceramente, non è tra quelli destinati a rimanere nella memoria.
Indicazioni utili
- sì
- no