Dettagli Recensione
La banda del Pleroma
Primi anni ’70, Don Pezza, parroco di Santa Liberata in Torino, è un sacerdote davvero particolare. Dopo aver vestito i panni (laceri) del prete contadino o del prete operaio, aver sperimentato i ruoli dell’apostolo degli umili, dei diseredati, di coloro che la società rigetta (talvolta pure a ragione), a seguito di tafferugli tra i suoi protetti e dei rimbrotti della Curia, sembra che si sia riconvertito a torvo e feroce pastore del suo gregge. Così, nelle funzioni speciali del venerdì sera lo terrorizza con le peggiori minacce tratte dall’Apocalisse di Giovanni. Proprio al fine di incutere sacro terrore alle sue “pecorelle”, ha staccato l’illuminazione elettrica della chiesa; ha allestito, per il riscaldamento della stessa, una specie di caldaia che richiama le fiamme infernali e, soprattutto, ha fatto costruire una impalcatura d’acciaio, alta sette piani (come i peccati capitali) per far scendere, con voce imperiosa e tonante, i suoi ammonimenti sull’ecclesia tutta.
Peccato che, proprio nella serata d’esordio, quando avrebbe dovuto recitare la predica dall’ultimo livello, un’esplosione d’ignota natura lo abbia scaraventato dabbasso, interrompendo per sempre il suo apostolato terreno. E tutto questo avviene quando due poliziotti erano presenti in chiesa e altri tre piantonavano, in borghese, l’ingresso, proprio per evitare problemi d’ordine pubblico.
Incaricati delle indagini i commissari De Palma e Santamaria. Soprattutto quest’ultimo si impegna nel cercare di capire chi fosse e cosa predicasse don Pezza e chi lo odiasse al punto da ucciderlo in quel modo.
Già dopo le primissime informative ne risulterà un quadro intricatissimo, che vedrà coinvolti l’arcivescovado (l’alto prelato era presente, in incognito all’omelia fatale), un manipolo di mafiosi in domicilio coatto, e, addirittura, la Fiat.
Tra sospette eresie gnostiche – con richiami alle dottrine di Carpocrate, Valentino, Marcione e Basilide (l’infame!) – e molto più terrene devianze dal codice penale, le piste da seguire saranno tante, confuse e intricate. Anche i sospetti e i fermati saranno numerosi, ma sulla base più di indizi vaghi o sospetti inconsistenti.
A complicare il quadro, già di difficile lettura, l’elenco dei morti violenti si allungherà: infatti, già il giorno dopo verrà trovato, ucciso nella sua auto, il corpo del maresciallo Aurelio Genovese dell’Arma dei Carabinieri che da parecchi giorni indagava, sotto copertura, sulla possibile presenza nel torinese di una fabbrica per la produzione di stupefacenti, ma che, misteriosamente, era stato visto nei pressi della chiesa di Santa Liberata proprio la notte dell’attentato a don Pezza.
Che i colpevoli siano i mafiosi della zona, il cui contabile (Graziano Scalisi) era ‘casualmente’ presente in chiesa, ufficialmente per accompagnare la sua ragazza (Thea) e conoscerne la di lei madre (la sofisticata signora Guidi)? Ma perché, allora il viscido, bavoso ing. Vicini della FIAT, collaboratore stretto del Pezza nelle recite del venerdì, s’era eclissato prima dello scoppio in chiesa? E che fine avevano fatto i due maneschi fratelli Boltolon, factotum del prete, anche loro misteriosamente allontanati dalla funzione? E cosa ci faceva lì un editore ‘impegnato” con tutto il suo staff? E lo storico carteggio Crispi-Oderici, di cui si occupa il Monguzzi, uno dei redattori della medesima, in che cosa influisce sulla vicenda di sangue?
Insomma “grande è la confusione sotto il cielo” di Torino.
La premiata Ditta “Carlo Fruttero & Franco Lucentini” ha notevolissimi meriti nella letteratura italiana. Oltre ad aver sdoganato filoni narrativi una volta ritenuti marginali o di serie B (vedi fantascienza e polizieschi) curando collane e antologie di grande importanza, ha avuto una feconda produzione di romanzi di pregio.
“A che punto è la notte” è un libro del 1979 che utilizza alcuni dei personaggi già protagonisti del precedente, e più famoso, “La donna della domenica” e ci porta in una Torino agitata dallo spettro del terrorismo, dalla penetrazione mafiosa e da una generale insicurezza diffusa e pervasiva tra gli abitanti della città.
L’ho preso in mano seguendo il consiglio di un amico che me lo ha caldamente consigliato come un libro di grande valore letterario e l’impressione finale è sicuramente buona, ma con qualche distinguo.
Indubbiamente il duo F&L si conferma essere un’accoppiata di abilissimi narratori e la storia che ci offrono è senz'altro intrigante e divertente. Molto ben congegnati e dipinti sono sia i personaggi principali che quelli secondari, i quali, tutti, sono molto più che comparse usate per riempire il fondale della vicenda. La storia, poi, ha il pregio di essere assolutamente plausibile con le indagini che, come nella realtà, spesso si perdono in mille rivoli, confuse come sono da indizi contraddittori e false piste.
Decisamente interessanti sono il filone d’indagine relativo allo gnosticismo, con tutte le sue criptiche ramificazioni, e le divagazioni – al seguito del pedante, tenerissimo Monguzzi – sul carteggio storico tra l’Oderici e il Crispi.
L’ambientazione, che all’epoca della stesura doveva essere contemporanea, ora ci porta indietro in un tempo che ci appare remotissimo, in un’epoca che ormai non esiste più, in una Torino ove aleggiano (dietro le quinte, ma minacciose), le ombre del terrorismo degli anni di piombo. Un’epoca dove la FIAT è ancora ammantata di sacra inviolabilità quasi ieratica e ultraterrena, più della stessa Chiesa cattolica; dove le tensioni sociali sono ancora vive e palpabili; dove la telefonia mobile è ancora in mente dei, mentre i computer sono solo enormi macchinari in dotazione alle grandi aziende e usano, come supporti di memoria, banali audiocassette da 1/8 di pollice non dissimili da quelle usate dai registratori portatili in voga in quegli anni.
F&L approfittano della storia poliziesca per fare anche una satira di costume, lanciando qualche feroce strale contro l’istituto del domicilio coatto, certo clericalismo bigotto e i vari moralismi, l’assurda, pretesa inviolabilità della FIAT e il viscido servilismo (fantozziano) dei suoi quadri intermedi nei confronti dei vari potentissimi dirigenti.
La trama è interessante e ben costruita, ma (e qui cominciano i “distinguo”) forse troppo, troppo intricata e contorta. Come detto sono decine i personaggi coinvolti e tante le storie che si intrecciano e intralciano l’una con l’altra: oltre al filone principale del neo-gnosticismo di Pezza e delle supposte trame mafiose, c’è la storia d’amore tra la dolce Thea e l’equivoco Graziano; l’attrazione tra il commissario Santamaria e la signora Guidi; le perversioni e le devianze dell’ing. Vicini, dello stesso don Pezza, della viceparroca (sic!) alcolista Caldani, del Priotti e di tutti gli strambi individui che gravitano attorno a Santa Liberata; le apparizioni, a lungo misteriose, del “venditore di matite”, e le manie dell’editore e del suo team di redattori. Insomma il lettore fa presto a perdersi mentre tenta a fatica di star dietro al racconto. In qualche caso, addirittura, sarebbe opportuno pigliare appunti per ritrovare i riferimenti indispensabili a capire tutto.
Molto interessanti sono gli esperimenti linguistici di F&L che giocano in modo vivace e indisponente con l’italiano e pure (com’è avvenuto anche ne “La donna della domenica”) con certe equivoche espressioni piemontesi. Però, forse, sarebbe stato preferibile in molte occasioni una tecnica stilistica meno sbarazzina e una minor libertà nell’uso della punteggiatura; meno descrizioni in stile colloquiale; meno frasi troncate a metà con l’uso dei puntini di sospensione (quasi un tormentone in tutto il testo). Pure le annotazioni infarcite di abbreviazioni negli appunti dell’assistente di polizia Pietrobono talvolta risultano faticose e tediose.
Insomma alla fine ne risulta un bel libro da leggere che nel mentre ci consente un viaggio nel tempo che fu, ci diverte e distrae, ma che, a mio modestissimo avviso, poteva essere pure migliore se si fossero curati di più alcuni aspetti stilistici e se la storia fosse stata snellita e resa meno erratica con le troppo frequenti divagazioni.
Chiudo con la citazione di una battuta del commissario Santamaria che ben sintetizza il suo stato di confusione e turbamento, come uomo e come poliziotto, e che dà pure corpo al sentimento che agita gli altri personaggi e tutta la società di quegli anni.
“Niente è più quello che sembra, niente sembra quello che è… La porta alla fine si apre, ma con una chiave sbagliata, o magari era una porta già aperta. Oppure la chiave giusta arrugginisce, si spezza dentro la serratura…”