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La vita paga il sabato
 
La vita paga il sabato 2023-06-01 10:23:04 FrancoAntonio
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    01 Giugno, 2023
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Arcadipane e il fascino mortale di uno sguardo

Torino, 2013, a ora antelucana di un giorno di metà di ottobre, il Commissario Vincenzo Arcadipane viene svegliato da una telefonata del suo vice, Pedrelli, mentre si trova a casa della sua ex terapista e attuale sua amante, Ariel. Pare che il dirigente generale abbia chiamato in centrale e insistito perché sia Arcadipane personalmente ad assumere la direzione delle indagini per un omicidio avvenuto in un paesino montano in provincia di Cuneo, Clot. Il posto sarebbe ben al di là dalle competenze territoriali della squadra omicidi torinese, ma pare sia coinvolto un personaggio di altissimo rango ed è necessario muoversi con il dovuto tatto e con assoluta rapidità.
Giunto a Clot, il commissario scopre che la vittima è Terenzio Fuci, titolare di una casa di produzione cinematografica romana, fratello del defunto onorevole Amilcare (pezzo grosso della DC) e, soprattutto, marito di Vera Ladich, attrice famosissima negli anni ’60 per il penetrante sguardo che lanciava alla cinepresa nei momenti topici della storia. Quegli occhi bellissimi, che sembravano attraversare lo schermo, le avevano guadagnato il soprannome di Mademoiselle le look.
Ora l’uomo è seduto sul sedile del guidatore della sua Jaguar, strangolato da una piattina elettrica, usata anche per legargli le mani al volante. L’auto è abbandonata in una radura erbosa molto distante dal paesino. Invece la moglie Vera, da cui lui non si separava mai, è scomparsa: morta? Rapita? Comincia una corsa contro il tempo per ritrovare la donna senza attirare l’attenzione dei media più del necessario. Ma i 37 abitanti del paesino sono tutto fuorché collaborativi. Attorno all’auto non c’è la minima traccia, neppure orme o segni di cose trascinate. Non è nemmeno chiaro perché la coppia sia partita da Roma, in auto, per venire in quel luogo lontano da tutto e tutti. Il paesino nasconde pure un segreto, che affonda le sue origini nella notte dei tempi; è, relativo a uno strano, inquietante rituale chiamato Sucho che un pittore fiammingo minore (Johannes van Drift) avrebbe immortalato negli affreschi della chiesina romanica del borgo.
Inevitabilmente, per venire a capo dell’enigma, Arcadipane sarà costretto a chiedere aiuto al suo ex mentore e amico Corso Bramard e alla irascibile Isa Mancini. Il primo l’avevamo lasciato ammalato terminale, con poche speranze di sopravvivenza a lungo termine; lo ritroviamo neo-trapiantato e ancora debole e convalescente. La seconda, adesso, è incinta (per fecondazione artificiale) e ancor più intrattabile di prima. Però entrambi forniranno un apporto decisivo per la soluzione del caso.

Quarta avventura per il poliziotto-Fantozzi più tenero e patetico della letteratura italiana. In questa occasione, però, i suoi triboli di persona comune, afflitta da ansie e turbamenti, passano in secondo piano e il racconto muta i toni e i ritmi: non è più un viaggio psicologico nell’animo dell’uomo Arcadipane, ma un giallo, forse più classico, però anche più strutturato, con enigmi da risolvere, indizi da incastrare in un quadro complesso e indecifrabile, teorie da verificare o smantellare. Parallelo all’indagine puramente criminologica, poi, c’è un arcano mistero di riti iniziatici e di una cultura montanara che ci trasporta in un medioevo eretico, selvaggio e crudele, ma affascinatissimo.
La narrazione si snoda tra vari colpi di scena e disvelamenti di realtà inaspettate, talvolta angosciose, con un’accelerazione progressiva delle vicende che, in chiusura, divengono incalzanti e innalzano la tensione in un climax parossistico.
Molto interessanti i personaggi di contorno, a cominciare dall’enigmatica, dolce, piccola Ester, la figlia dei locandieri di Clot, o l’efficiente, ruvida, spiccia Franca Pes, che aiuterà Arcadipane nel ramo romano delle indagini.

Lo stile narrativo è quello solito, ben noto ai lettori di Longo: grezzo, irriverente, ruvido e arrogante; spesso astioso e insolente, quasi sempre insofferente anche nei confronti delle più banali regole grammaticali e sintattiche, con cui si prende più di una libertà. Pure le metafore descrittive di situazioni, personaggi o paesaggi sono spesso triviali, grossolane, quando non proprio scatologiche e scurrili, eppure… eppure il più delle volte non mancano di una loro eleganza e adeguatezza.
Però, forse, questo romanzo avrebbe richiesto più spesso un cambio di marcia: giacché non si tratta più (solo) di vedere il mondo con l’animo rancoroso, depresso e esacerbato di Arcadipane – perennemente in lotta contro tutti a cominciare da sé stesso, e che, quindi, vede ogni cosa deformata attraverso il suo filtro ingrigito – il linguaggio poteva essere addolcito in molte occasioni. È impossibile che tutti i personaggi principali sembrino cani idrofobi, orsi immusoniti o strambi idioti, così come un paesaggio può ispirare pensieri lieti o poetici e non solo reazioni di ripulsa. Poiché non è prerogativa della sola Mariangela (moglie del commissario) costruire periodi ipotetici con i congiuntivi correttamente al loro posto, anche il narratore avrebbe potuto assoggettarsi più spesso alle regole che non sempre debbono ricalcare lo spirito semplice, verrebbe da dire a un più basso stadio evolutivo, di Arcadipane o alla scabra, rocciosa essenzialità di Bramard.

Preso atto di questi rilievi, però, non si può negare che il romanzo sia ottimamente costruito e splendidamente narrato, con una magistrale gestione dei tempi e dei filoni narrativi intrecciati. Forse è il migliore della quadrilogia, il più maturo e completo: seducente e intrigante; affascinerà pure chi ama i racconti arcani, fatti di misteri e riti tribali millenari. Insomma un ottimo cocktail di intrighi, passioni, thrilling, qualche risata liberatoria e indagini sulla psiche umana, scritto in modo fluente e scorrevole. Da leggere, soprattutto per chi ha già apprezzato i precedenti romanzi della serie della quale, questo, è un ottimo seguito.

_________________
Per l’angolo del pignolo consentitemi un appunto sulla libertà linguistica di Longo: il verbo camminare è intransitivo e non si “cammina un corridoio”. Se ci fosse un solo esempio di quest’uso “libero” del verbo si potrebbe pensare a una voluta licenza (anche Foscolo se la prese), ma, nel libro ho trovato recidive che, alla lunga, infastidiscono.
Evidenzio, poi, una piccola incongruenza nella narrazione: Arcadipane si riferisce sempre a un giornalista investigativo storpiandone il cognome in Spinapollice (con due “L”) ma quando ne parla con Bramard quest’ultimo lo chiama con il nome corretto (Spinapolice), come fa a saperlo se per prima cosa dice di non conoscere l’uomo?

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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
... i primi tre libri della serie.
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