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La mala erba
 
La mala erba 2023-05-19 15:10:40 Bruno Izzo
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    19 Mag, 2023
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Tutto il mondo è paese

Un raro caso di simbiosi letteraria perfetta tra un autore ed il suo personaggio più noto è quello tra Antonio Manzini e Rocco Schiavone, quasi che uno fosse l’equivalente dell’altro.
Se non fosse però che la fortuna del commissario romano in loden e Clarks ai piedi, traslato a forza in quel di Aosta, il cui clima rigido richiederebbe piuttosto un piumino d’oca, e mal si adatta alle polacchine predilette dal poliziotto, sta proprio nel fatto che quelle che lo vedono protagonista sono certamente belle storie, ma vengono scritte ancora meglio.
Antonio Manzini non è solo il creatore di Schiavone, è uno scrittore, non un novelliere che ha inventato un personaggio fortunato, casuale ma che funziona, tutt’altro, è un autore, un romanziere completo, in verità è un bravo scrittore dotato di una penna fluida, celere, descrittiva, non è la prima volta che dà prova di sé con altri testi diversi da quelli seriali che gli hanno conferito notorietà.
Le sue pagine scorrono veloci, quanto racconta attira, lega, cattura attenzione ed interesse, a fine lettura offre spunti notevoli di riflessione.
“La mala erba” ne è comprova, qui mancano Schiavone e soci, nemmeno è un giallo in senso stretto, piuttosto direi che è una storia che riduce la location di azione, dalla piccola città di Aosta popolata da qualche decina di migliaia di valligiani si passa ad un piccolo borgo sull’Appennino tra Abbruzzo e Lazio, zona di boschi, di lupi, di monti e valli impervie, dove i residenti ammontano a poche centinaia.
Il che però non comporta una diminuito di quanto di più deleterio insito nell’animo umano si riscontra più in grande: l’angheria, lo strapotere, la prepotenza e i soprusi del più forte sul più debole.
Sempre queste compaiono in un consorzio umano, e la fanno da padrone, solo che appena si palesa al bestiale lupo mannaro di turno la possibilità di divenire hominis lupus.
Una belva per i propri simili, accoppiando alla violenza la furberia, la malizia, la disonestà, il tutto volto al proprio personale tornaconto.
Più che un romanzo in sé, direi che “ La mala erba” è una forma neanche tanto velata di denuncia sociale.
“…la mala erba a forza di ammazzare tutto quello che ha intorno, poi muore…”
In sintesi, Manzini descrive nei particolari un microcosmo dove i personaggi sono formichine che replicano in piccolo quanto di più eclatante si rispecchia pari pari nel macrocosmo.
Ci offre uno spaccato dell’attualità, il suo borgo in piccolo è l’emblema di quanto accade più in grande in ogni tempo e in ogni luogo.
“…Quando si è disperati, ci si tolgono le maschere…”
“La mala erba” non è un titolo a caso, è una pianta invadente, che si diffonde con rapidità, travalica i limiti del piccolo borgo montano in cui è ambientata la nostra storia, in un certo senso diviene simbolo, immagine, metafora dell’intero Paese con la maiuscola.
Anche qui c’è un dominus super partes, un signorotto locale, tale Cicci Bellè, padre di Mariuccio, un povero ritardato, a cui la disgrazia di tale figliolo comunque amatissimo dal padre non gli ha impietosito l’anima, temperandone il carattere alla benevolenza e alla solidarietà, tutt’altro, forse lo ha esacerbato nei suoi istinti peggiori.
Cicci Bellè domina sul paese, esercita un miserabile dominio sulla maggioranza, cittadini che già di per sé stentano la vita in simili difficili contesti economici ai limiti del sostentamento materiale, praticando sui poveri sventurati, costretti da inevitabile bisogno, vessazioni basate su ed oltre l’usura fisica e psicologica, da cui gliene deriva asservimento e vassallaggio delle disgraziate vittime.
Da solo Bellè, o insieme ad altri squallidi personaggi di contorno, costituisce allora letteralmente la mala erba, il fiele che intossica quanti costretti alla dipendenza, avvelenando l’esistenza, e originandone differenti conseguenze.
In contrapposizione a Bellè, quasi in antinomia a esso, è l’altra protagonista principale, la giovane diciassettenne Samantha De Santis, una ragazza dei nostri giorni a cui, inevitabilmente, la realtà del paese, soprattutto la mentalità, il modo di essere e di concepire l’esistenza, la soffoca molto più di quanto una qualsiasi erbaccia possa compiere su un tenero virgulto.
La giovane Samantha mal sopporta, e giustamente, del suo borgo natio, le ombre, le tristezze, le miserie, i colori grigi e i toni cupi dei fatti e delle persone, compresi i coetanei rimasti indietro.
Come un seme nuovo, vuole crescere bene e meglio, anela ad insediarsi su un campo fruttifero, aspira ad altro. Nulla di eclatante, la possibilità di studiare all’università, di emanciparsi, di crescere libera da legami tossici e antichi legacci fibrosi, la giovane non a caso prova a trarre forza, a ravvivare i suoi sogni e le sue ispirazioni traendo spunto dal poster di una donna lupo posto in bella vista sulla parete della sua camera. Se Cicci Bellè, e quanto lui rappresenta, è il lupo che si nasconde nell’erba pronto a sbranare il membro del gregge più debole, Samantha è la donna lupo, desidera avere la sua forza ed il suo coraggio per mirare alla luna.
“…Quello che voglio fare è finire il liceo e andare a fare veterinaria. Il resto è solo un impiccio…”
Quello che però Manzini sottolinea, e lo fa magistralmente, con pochi tocchi di colore che descrivono alla grande il tumultuoso avvenire di fatti e azioni che paiono letteralmente travolgere, come un fiume in piena, il paese ed i suoi abitanti, è ben altro che una sterile contrapposizione tra buoni e cattivi, ritratti sia in grande che in piccolo.
L’autore intende rimarcare quanto cioè sia difficile per chiunque cambiare, evolversi, divenire differentemente. In meglio.
Dicevamo che il suo più che un romanzo è una denuncia sociale: direi di più, è un atto di sconforto, una constatazione letteraria di contraddizioni, incongruenze e controsensi insite nel nostro essere umani, radicate in profondità come e più di una mala erba, assai difficili da sradicare.
La mala erba non è, di per sé, un qualcosa di necessariamente cattivo, essa è sì un’erba spontanea, di sua natura rapidamente infestante, e perciò nociva alle colture.
Viene definita tale, un’erba mala, cattiva, proprio perché intralcia il nostro progetto di crescita e di coltura, per cui la strappiamo. Usiamo diserbanti, al limite il napalm.
La mala erba è un vegetale, fa quanto si ritiene debba fare una pianta, cresce e si sviluppa, segue la sua natura. L’uomo con il veleno appesta tutto, anche sé stesso, lui sì che non è naturale.


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Antonio Manzini
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