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Un noir distopico
Un incubo che si materializza in un uomo apparentemente normale, ma segnato da un’esperienza che ha fatto emergere quegli istinti bestiali presenti in ogni individuo, confinati sul fondo della coscienza, ma pronti a esplodere quando si verifichi un fatto, un evento che funge da catalizzatore. Una terribile eredità, l’ultimo romanzo di Gordiano Lupi, è un noir profondamente distopico, in cui la realtà umana viene vista con un senso di profonda disillusione, una presa di coscienza sull’imperscrutabile e ignoto che è dentro di noi, su quel male che ci portiamo appresso senza saperlo.
La vicenda ha inizio in un’Angola insanguinata dalla guerra, a cui il protagonista cubano partecipa non per vocazione, ma perché praticamente obbligato. E’ una parte, questa, del romanzo in cui l’autore piombinese ha dovuto far leva molto sulla fantasia, poiché non conosce quei posti, così che ne risulta uno stato abbastanza “sui generis”; ma proprio per questo emblematico di qualsiasi conflitto. I bombardamenti, le imboscate, le uccisioni, il cameratismo, lo sfogo con le puttane, la paura, la nostalgia sono proprie di ogni ostilità e il solo fatto che questo avvenga in Africa, anziché in Europa, nulla toglie alle sensazioni dei protagonisti, all’orrore dilagante, all’angoscia, perché questo è caratteristica di ogni guerra.
Quando la morte è sempre al tuo fianco i freni inibitori si allentano, si diventa capaci di tutto, anche, per necessità, di divorare i propri simili.
Questo fatto, che ha segnato indelebilmente la mente del personaggio principale, è stato dapprima dallo stesso oscurato, ma il non poterne parlare, il non trovare sfogo a un tormento che scava in profondità fa vacillare la personalità, fa prorompere quel che di male è sempre presente in noi.
E così, nella seconda parte, che si svolge a Cuba e la cui conoscenza all’autore giova in modo rimarchevole, ha inizio il vero e proprio noir, una ripetizione del rito macabro del cannibalismo in Angola per un uomo che, ritornato alla vita consueta, non ha più il supporto psicologico della moglie, morta di parto nel dargli alla luce un figlio che conosce già cresciuto.
Avvilito per le esperienze della guerra, senza un preciso riferimento affettivo, disgustato per la decadenza del regime – al riguardo è molto riuscito il contrasto fra la bellezza della natura e lo squallore di un’umanità senza speranza - , diventa facile preda di un mal sottile a cui cerca invano di resistere e così inizia il suo percorso di mostro, attirato da vittime innocenti quali i bambini.
Il suo racconto, iniziato con la guerra in Angola, si svolge nell’intrico di una ragnatela sempre più fitta, di cui finisce con l’essere carnefice e vittima.
E’ un uomo solo con il suo male, con la sua disperazione, con il suo dolore, immerso in un orrore a cui cerca invano di sfuggire.
Il percorso torbido della mente riesce a dare al protagonista una visione umana, grazie al senso di pietà che emerge dalle righe.
E Cuba vive la sua grigia esistenza, descritta in modo ammirevole, nell’impassibilità di un governo incapace di comprendere l’animo umano.
La lettura è, ovviamente, più che consigliata.