Dettagli Recensione
Delitto e castigo
Una legge morale dall’alba dei tempi recita che ad ogni delitto segua il giusto castigo.
Concetto introdotto già da Beccaria, poi Dostoevskij ne trasse anche un bel romanzo.
Nella società civile, la privazione della libertà personale è una misura estrema, volta certamente non a punire ma al recupero del reo, lo prevede la Costituzione, tramite un percorso di consapevolezza, di crescita e maturazione seguita da evidente ravvedimento, ed infine un utile ed operoso reinserimento nel vivere comune, in sintesi il carcere serve a conseguire la libertà attraverso sanzione e rimedio.
Sarà; certamente non è questo il caso di Antonio Caruso, protagonista del romanzo “Mille giorni che non vieni” di Andrej Longo, scrittore ischitano di nascita e napoletano d’elezione.
Caruso da un giorno all’altro si ritrova rilasciato, posto in libertà, senza nemmeno conoscerne i motivi effettivi: nessuno, tantomeno il suo legale, sono al corrente del provvedimento di sospensione immediata del castigo. Per quanto concerne il delitto, invece, Caruso sa benissimo di essere colpevole, e di un reato tra i più gravi, oltretutto, un omicidio.
Non è reo confesso, o pentito del suo gesto: ha fatto fuori Skorpio, un malavitoso suo pari se non pure peggio, magari avrebbe anche preferito evitarlo ma certamente non poteva esimersi, sentiva di doverlo fare. E lo ha fatto.
L’assassinato a colpi di pistola era un infame, secondo il codice deontologico a cui Caruso aderisce dalla nascita, lo aveva colpito nei suoi affetti più sacri, ben oltre i legami di sangue, prima ancora che nei suoi affari. Come a dire, Skorpio se l’era cercato, ma soprattutto era un viatico obbligato nel mondo di Caruso. Malgrado sconti già da diversi anni la sua colpa, e tanti altri ne ha davanti, Caruso tuttavia accetta lo scorrere della reclusione quasi con compostezza, senza speranza ma neanche senza particolare avvilimento, perché la disperazione in carcere è pericolosa, il detenuto Caruso conosce le statistiche di suicidi nelle carceri meglio di un operatore del sociale.
“…il passato è un’ombra scura che ti viene a cercare ogni sera”.
Non può permettersi alcun scoramento, per quanto sia conscio della sua avvilente condizione, fuori dalle sbarre ha una moglie, che per quanto ancora innamorata di lui è triste e non lo aspetta più, ma soprattutto l’amatissima figlia, che invece vorrebbe tanto rivederlo, almeno quanto lui.
La piccola non ha ancora strumenti e coscienza per intendere perché il suo papà, di cui pur recepisce in pieno l’amore smisurato che porta alla sua bambina, lascia trascorrere tanto tempo, tanti momenti, mille giorni che non viene a trovarla.
Antonio Caruso è un figlio del suo tempo, dell’habitat e delle condizioni in cui è nato e cresciuto.
Viene dalla strada, quelle di vie, viuzze, vicoli, piazze e quartieri degradati: la sua formazione è, di necessità, per pura sopravvivenza, di natura delinquenziale.
Non vive, Caruso, neanche studia o lavora, a quelli come lui scuola e lavoro sono negati quasi per dettato costituzionale, semplicemente si arrangia.
Vale a dire che trova, racimola, mette insieme quanto serve per sostenersi, e poi sostenere la fidanzata in stato interessante, nel solo modo che la vita gli riserva: fuorilegge.
Come fanno tutti, ad iniziare dagli amici con cui cresce che sono la sua unica, vera famiglia: Tyson, Polpetta, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone, Mezza Recchia.
“…eravamo immortali. E ci mangiavamo la vita a morsi, più in fretta che ci riusciva”.
Non sono macchiette, sono per davvero la sua famiglia, le persone che ha più care al mondo, per cui si farebbe uccidere…e uccide.
Pertanto, una volta rimesso in libertà, Antonio prende la cosa nell’unico modo giusto che una persona intelligente come in effetti è, e anche ricco di umanità, malgrado i trascorsi delinquenziali, può fare: come una seconda chance. Una via d’uscita dal suo passato che il caso, la fatalità, la vita intende offrirgli, una pista di scampo, una svolta, una nuova direzione.
Tutte buone intenzioni…che rischiano di rimanere tali.
Perché Caruso si industria, si ingegna, si sforza per rifarsi un’esistenza priva di sbarre e palpitazioni, intende procedere su una retta via per amore sia della moglie Maria Luce che della piccola Rachelina.
Si rivolge allora per un aiuto al cappellano del carcere, per suo tramite viene assunto per guidare i camion…salvo poi accorgersi che al peggio non c’è mai fine.
Antonio Caruso vorrebbe semplicemente passeggiare al braccio di sua moglie sul lungomare, giocare con la figlia e poi regalarle un gelato, ritirarsi la sera dopo una lunga giornata di lavoro faticoso e mal pagato, solo questo, e non più delinquere: ma il suo destino sembra essere un fine pena mai.
Perché i camionisti devono ingurgitare pasticche e intrugli osceni per sostenere viaggi dai ritmi impossibili, ignorando come muli con i paraocchi quello che trasportano.
Dietro merci comunissime come verdure e pomodori vengono celati esseri umani, ancora più disgraziati dello stesso Caruso, perché utilizzati non tanto come forza lavoro, sempre il termine “lavoro” suona come chimera in certe situazioni, bensì nell’espianto di organi.
Inoltre, armi, droghe, rifiuti tossici. Con il corollario del bisogno perenne, il ricorso costretto agli usurai, le pretese pedofile di queste.
“…ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati”.
Antonio Caruso allora decide di riprendersi la sua esistenza, torna a mettersi in gioco, a rischiare in proprio, questa volta però dalla parte giusta: questo sì, il solo modo di rieducare un reo, recuperarlo alla società civile, molto più di come potrebbe farlo un qualsiasi carcere.
Pagando il prezzo che deve.
Andrej Longo non ci offre un romanzo di guardie e ladri, di buoni e cattivi.
Con la scrittura scarna, essenziale e incisiva che lo contraddistingue, Longo induce a riflessioni, per quanto amare. Lo scrittore ha una prosa scorrevole, agile e disinvolta; si fa leggere e seguire con facilità, comprensibile a chiunque anche quando indulge nelle forme dialettali, la sua è una attenta disamina sociale che illustra una certa realtà degradata a spirale, dove sui bordi permangono i buoni, certo, e però nel vortice chiunque può finirci, mancando appigli sicuri come il lavoro, la scuola, la cultura, i libri, ancor di più se nessuno si muove di quelli che potrebbero venire in soccorso.
Forse il finale non soddisfa pienamente il lettore, ed è l'unico limite del libro. Ma quello che Longo intende sottolineare, è altro: che serve che i derelitti imparino in fretta a sottrarsi al vortice, perché il fondo, questo Longo lo dice chiaro e tondo, è un inferno. A cui un buon padre, per quanto delinquente, per amore sa sottrarsi, la piccola Rachelina anela solo mille giorni con il suo papà.