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La pediatra e il cappellano di Sua Santità.
Il vicequestore aggiunto Giovanna Guarrasi, detta Vanina, mi è proprio entrata nel cuore e nel cervello. Questo è il quinto thriller con lei protagonista, e posso solo confermare un giudizio letto non ricordo dove: formidabile. Merito naturalmente di una mia collega, la dottoressa Cristina Cassar Scalia, che riesce (quanto la invidio!) a confezionare storie che, quando cominci, non le lasci più, restando agganciato a trame che t’avviluppano e che non vanno mai a finire come ti aspetti. Vanina scava, scava, perché, come lei stessa ne è convinta, “le cose non sono mai come sembrano”.
Questa volta la prima sorpresa è il ritrovamento di un cadavere, si saprà poi che è quello di una pediatra dell’Ospedale, in una sala del Grand Hotel della Montagna, sull’Etna, la “muntagna” di Catania: abiti scomposti, ecchimosi, segni di strangolamento. All’arrivo dei poliziotti, il cadavere non c’è più: la seconda sorpresa è che ne vengono trovati due nella cappella di un cimitero, lo stesso dell’hotel più quello del titolare della cappella, pure lui strangolato, un famoso monsignore, addirittura cappellano di Sua Santità. I due cadaveri accostati, uniti da un fiocco rosso, e circondati da lumini, a formare una macabra messinscena.
Entrano in azione Vanina e la sua impareggiabile squadra: dal capo supremo, il mastodontico Tito Macchia, che non nasconde più il suo legame con la morosa Marta Bonazzoli, all’ispettore Spanò ed ai vari “carusi” e “picciotti”, fino ad un ex commissario in pensione, l’onnipresente Biagio Patanè, che non sopporta la vita casalinga (ha una moglie impicciona e possessiva!) e riesce a dare sempre un parere non scontato. Li ho voluti citare quasi tutti, perché formano un tutt’uno solidale e compatto, fedelissimi (pure la figura apicale) a Vanina, che ha (finalmente!) concesso ai sottoposti di chiamarla cameratescamente “capo”.
Naturalmente partono le indagini a tutto campo: interrogatori e riscontri a familiari, conoscenti, colleghi, ispezioni in chiese e Ospedale. Proprio nel nosocomio salta fuori un caso di anni prima: la morte di una bambina, inevitabile, che aveva scatenato l’ira dei parenti, una ben nota famiglia mafiosa, con insulti e minacce di morte alla stessa pediatra. L’uccisione della dottoressa e del prete (che era stato cappellano anche in Ospedale) era forse un’atroce vendetta mafiosa? Un’allusione ad un accertato legame sentimentale tra i due?
Così pare ma, come ci ha abituati l’autrice in quasi tutti i suoi gialli, Vanina scava nel passato con pazienza certosina, ben consapevole che, come al solito, non tutto è come sembra: il colpevole viene alla fine incastrato, e non è, classico colpo di scena, quello che il lettore si aspetta.
Il romanzo è scorrevole, ben costruito, Vanina comanda e decide con un intuito infallibile, alternando il lavoro con le solite golose pause culinarie e le numerose Gauloises: c’è un pensiero che la turba nei momenti di tregua, il ricordo del padre ucciso dalla mafia e la difficoltà di scovare l’ultimo colpevole ancora libero. E poi un altro pensiero: il suo amato Paolo Amalfitano, sostituto procuratore alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, che riemerge sempre e che le riserva un’ultima sorpresa nel capitolo finale.
Sullo sfondo, naturalmente, una Catania invernale e soprattutto “a muntagna”, l’Etna dalla cui sommità innevata inizia il racconto: una maestosa, splendida realtà, “in contrasto con il sole di Catania a due passi dal mare, ma con la neve a portata di mano”.
Chiudo con un’illuminante convinzione del commissario in pensione Biagio Patanè, che condivido in pieno: “… non c’è niente da fare. A 83 anni crogiolarsi nei propri acciacchi è severamente vietato. Perché uno tanto fa che alla fine se li peggiora da solo. L’unica è ignorarli”.
Da memorizzare!