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Bell'abissina
 
Bell'abissina 2023-02-04 17:05:29 cesare giardini
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    04 Febbraio, 2023
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Il commissario Marino sul filo del rasoio ...

Per uno come me che ha passato l’ottantina da diversi anni, il titolo del libro di Lucarelli evoca una canzoncina degli anni Quaranta del secolo scorso, “Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora s’avvicina …”, un motivetto che, come ricorda anche l’autore, non era visto con simpatia dati i riferimenti razziali. Alle elementari preferivano farci cantare “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza ecc. ecc.”, più consona agli ideali di allora. Detto ciò, la bell’abissina del titolo è una bella meticcia, innamorata persa di Attilio, uno strano giovane di Cattolica, figlio di un potente personaggio del posto, uno che, partendo da umile pescatore, aveva fatto fortuna costruendo un impero di traffici immobiliari più o meno leciti in Africa e in Italia, protetto dal regime. Attilio e Weinì (così si chiama l’abissina) sono i due personaggi attorno a cui ruota tutta la vicenda: ingenua lei, freddo e calcolatore lui, fascista per convenienza, sicuro e protetto da un sistema che gli permette di comportarsi come meglio gli conviene. E poi c’è il commissario Marino, antifascista, in contatto con esponenti di Giustizia e Libertà: riesce a barcamenarsi, anche se si sospetta di lui, tanto da farlo pedinare da due scagnozzi del partito. Intanto Marino scopre in Attilio un pericoloso assassino, che uccide periodicamente giovani donne con difetti fisici: teme per Weinì, la mette in guardia, cerca di smascherarlo e di salvare la giovane in un finale travolgente (posso dire anche un po’ inverosimile) che ovviamente non rivelo, proprio alla vigilia dell’annuncio fatidico del Duce. L’Italia entrerà in guerra a fianco dell’alleato tedesco, l’avvenire appare radioso ai colleghi del nostro commissario, che finge contentezza brindando ad un sereno avvenire.
La storia si dipana su due filoni. Una storia con la esse minuscola fatta di molti personaggi, fascisti e antifascisti, indagini locali, scoperte agghiaccianti, scontri e accuse, bevute e balli al ritmo delle canzonette di allora e dei primi ritmi, appena tollerati, della musica d’oltreoceano (definita dal Duce “perversa e negroide”).
E poi c’è la Storia, il regime che impone le sue ferree leggi, comprese le odiose leggi razziali che impedivano addirittura rapporti sessuali con persone di razza diversa, le attività clandestine, l’impunità di personaggi che proprio grazie alle coperture politiche potevano fare affari di ogni tipo ed arricchirsi illecitamente. E questa Storia non risale a tempi remoti, ma ha caratterizzato la nostra vita abbastanza recentemente, alcuni decenni fa. Aveva ragione Giacomo Leopardi, che nello Zibaldone scriveva: “La storia dell’uomo non presenta altro che un passaggio continuo da un grado di civiltà ad un altro, poi all’eccesso di civiltà e finalmente alla barbarie , e poi da capo”.
Carlo Lucarelli procede magistralmente sui due filoni, anche se vanno segnalate alcune inesattezze riguardanti situazioni e date: il figlio di Mussolini, ad esempio, diventerà abile jazzista ben dopo la fine della guerra e non, come scrive l’autore, nel 1940, quando aveva solo 13 anni. Piccoli refusi, che non intaccano la piacevolezza della lettura e la capacità dello scrittore di far rivivere periodi e ambienti ben noti a chi ancora ne ha ricordi indelebili. Concordo infine con chi accosta Lucarelli a Raymond Chandler: il commissario Marino del romanzo ricorda il Philip Marlowe dell’autore americano, disincantato e ironico, ma pronto all’occorrenza ad usare metodi sbrigativi e violenti.


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