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Il dolore e la speranza in un futuro migliore.
E’ il tredicesimo capitolo della serie dedicata al commissario napoletano Ricciardi, siamo nell’aprile del 1939, un mese primaverile particolare e suggestivo, un mese di profumi, novità, sorprese, ma anche di rimpianti e ricordi che scavano nell’anima e rinnovano dolori mai sopiti. E’ il caso di Ricciardi, ancora sconvolto per la dolorosa perdita dell’adorata moglie Enrica, cinque anni prima: vive parlandole come se ci fosse ancora, la sofferenza è attenuata dalla presenza della figlia, Marta, affidata alle cure di una cara amica, la contessa Bianca di Roccaspina, ed alle solerti attenzioni di una premurosa istitutrice, Nelide. Il momento storico non è dei migliori: il duce e l’alleato tedesco progettano guerre ed invasioni, le camicie nere spadroneggiano, ogni tanto qualcuno, specialmente se ebreo od omosessuale, scompare definitivamente o finisce perseguitato e recluso nel carcere delle isole Pontine. La vita a Napoli prosegue tra speranze e mugugni; il profumo del mare penetra nei vicoli e nelle strade, ove un’umanità variopinta tira a campare impegnata in traffici e attività di ogni genere. Un brutto giorno, però, viene casualmente scoperto un orribile delitto: in un boschetto alle spalle di un caseggiato in rovina vengo ritrovati, l’uno sull’altra, i cadaveri di due giovani: lei con la gola tagliata, lui con il cranio fracassato. Ricciardi inizia ad indagare e scopre, grazie all’aiuto di un amico medico legale e antifascista, che il giovane ucciso è il secondo ufficiale di una nave da trasporto e, clandestinamente, porta messaggi alle famiglie di oppositori del regime reclusi alle Pontine. Scopre anche che il delitto non è opera di fascisti: un funzionario dei servizi segreti, infatti, gli rivela che i servizi hanno occhi dappertutto e sanno tutto, ma non intervengono se le attività clandestine non mettono seriamente in pericolo la stabilità del regime. Dopo una lunga e complessa serie di indagini, emergono come veri colpevoli alcuni componenti della famiglia della ragazza uccisa: la poveretta, rifiutando un matrimonio con un boss della zona, aveva inconsapevolmente condannato a morte sé stessa ed il suo innamorato.
Si intreccia con il racconto principale un’altra storia, che coinvolge un collaboratore di Ricciardi, il brigadiere Maione ed una sua amatissima figlia adottiva: quando si fa vivo uno zio americano della ragazza, ricchissimo, deciso a portarsela via, scopre con l’aiuto del commissario che il lontano parente è un truffatore ricercato dalla polizia, speranzoso solo di mettere gli artigli sulla cospicua eredità della nipote. Suo malgrado sarà costretto a tornarsene oltreoceano con le pive nel sacco.
Confesso di non aver mai letto nulla di Maurizio De Giovanni, e sono rimasto piacevolmente impressionato dal suo stile narrativo: uno stile ricco di sfumature, che scava nell’animo dei personaggi e ne mette a nudo sentimenti, rimpianti, paure. La dolorosa ossessione del commissario Ricciardi nei confronti della moglie perduta, i suoi colloqui ricordandola, verranno guariti solo da una gita con la figlioletta Marta al parco, dove gli sembrerà di iniziare una nuova vita dedicandosi interamente alla bimba.
“Aprile che dà speranze, aprile che ne toglie, aprile che sussurra parole terribili, con il tono della poesia”.
Ma c’è anche un altro aprile, sotto i cieli lontanissimi di un altro continente.
“Aprile piovoso, aprile freddo. Aprile che sembra l’autunno. Aprile dall’altra parte del mondo”.
Un’altra storia, laggiù, dov’è nata un secolo fa una struggente melodia, “Caminito”, la musica composta nel 1923, il testo aggiunto nel 1926. Poche pagine di Maurizio De Giovanni sul testo (“piccola strada su cui ogni sera correvo cantando il mio amore, non dirle se ritornasse a passare che fu solo il mio pianto a bagnarti”) e su una misteriosa cantante, “bella, di una bellezza animale, felina”, fuggita dall’Italia per la paura di essere rapita, torturata, forse uccisa. Una cantante che si esibisce in un caffè e, accompagnata dal suono del bandoneon, interpreta bene la melodia del tango, ma non sa “viverla” immedesimandosi nel dolore senza speranze , buio, inestinguibile del testo: il suo personale dolore invece, le fa notare il maestro di canto, non è così profondo, sembra intravvedere una lontana speranza, un sogno realizzabile “di mare, di primavere che sembravano primavere, di occhi verdi e di speranze”.
“Bastava saper aspettare”, conclude l’autore.
E sarà probabilmente un’altra storia…
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