Dettagli Recensione
Arimo... "Un, due, tre stella!"
«A volte anche l’essere più innocente serba dentro di sé un’indole potenzialmente malvagia.»
Porto Ercole, estate del 1997. Pietro Gerber e il cugino Iscio sono in vacanza. Fa caldo e i loro pomeriggi si snodano con giochi e divertimenti con gli amici. In particolare è il “gioco dei ceri” a far da padrone, un gioco che è una via di mezzo tra “acchipparella” e “nascondino” ed in cui un designato, il primo omino di cera, ha il compito di scovare gli altri, i viventi, per trasformarli in omini di cera semplicemente toccandoli. A questo punto gli sfortunati che non riescono a sottrarsi a questo destino possono contribuire alla caccia. Il tutto senza poter parlare e quindi senza potersi in alcun modo scambiare indicazioni su eventuali nascondigli. Chi violava la regola sarebbe morto di morte violenta entro tre giorni. Una sola la parola liberatoria, l’unica che può essere proferita per salvarsi: Arimo. Dal latino “arae mortis” e cioè altari costruiti per celebrare i caduti al termine di una guerra. Una parola, probabilmente che aveva lo scopo di indicare una sorta di tregua per seppellire i morti. A completare la banda di ragazzi vi è l’unica ragazza, Deborah, di Siena, che ha preso sotto la sua ala protettiva Zeno Zanussi, detto Batigol per la passione per la fiorentina e Batistuta, di solo cinque anni e fratello del più grande (la comitiva si aggira sugli 11 anni in su) Pietro Zanussi, di anni tredici, veterano del gruppo, Giovanni da Empoli, Giovannone, dalla mole del fratello sedicenne, Ettore da Firenze, Dante da Lucca con la mania per la distruzione delle cose e Carletto, di Grosseto, il meno assiduo della compagnia. Una banda eterogenea che passa un’estate in apparente tranquillità. Apparente perché se prima Pietro Gerber si ferisce a una gamba e resta per mezzo minuto senza respirare e senza battito cardiaco, poi è Batigol a far cadere il sipario su una estate che in alternativa avrebbe continuato a scorrere con tranquillità. Perché in un pomeriggio come tanti ecco che Zeno scompare. Di lui si perde ogni traccia.
«Il signor B. diceva sempre che bisogna avere più paura degli stupidi che dei mostri, perché non sanno di essere malvagi.»
Sono trascorsi due decenni. Pietro Gerber ha perso tutto. Fama, riscontro mediatico, successo come addormentatore di bambini nonché specialista infantile. Un solo paziente si è presentato alla sua porta, Tommy. Un bambino con tendenze violente, che cela qualcosa e verso il quale il professionista non ha più quegli scrupoli che avrebbe avuto in passato. Hanna Hall, i fatti de “La casa senza ricordi” lo hanno ricondotto a una situazione di apatia, trascuratezza, confusione, ossessione. La voce si è diffusa negli ambienti e per Gerber non c’è più credito disponibile. Tuttavia, una giovane donna, Maja Salo, si presenta alla sua porta. Capelli rossi, studentessa presunta d’arte, ragazza au pair della piccola Eva di anni dieci presso una famiglia prestigiosa, gli Onegli Catelani, in quel di San Giminiano, di origine finlandese, si presenta all’uomo con una lettera in mano e una richiesta d’aiuto. Sono questi il suo biglietto da visita. Pare che Eva abbia un amichetto immaginario decisamente dispettoso e che sempre più sta prendendo possesso e forza nella mente della bambina tanto da arrecarle delle lesioni. Per Gerber sembra trattarsi di schizofrenia infantile, all’inizio rifiuta il caso ma poi decide di incontrarla almeno una volta. Ed è qui che il romanzo ha davvero inizio perché l’incontro con Eva porta alla luce una serie di circostanze tanto ambigue quanto sovrannaturali e che riportano Gerber a quei due decenni prima. Sempre più sono i momenti di sincronicità con Zeno e la sua scomparsa. Che sia lui l’amichetto immaginario di Eva?
«Solo i bambini pensano che gli adulti siano migliori di loro e che crescendo si diventi più saggi o più rispettosi. Nessuno cambia con gli anni, si diventa solo più abili a nascondere i difetti.»
Ancora una volta Donato Carrisi torna in libreria con un romanzo dai grandi intenti e dai risultati approssimativi. È chiaro ed è evidente che l’autore desideri far breccia nel lettore facendo leva sul paranormale e sulle paure della mente. L’immaginazione, la voce, le presenze oscure che potrebbero presentarsi attorno ai protagonisti, la vita oltre la morte, le sette spiritiche e chi più ne ha più ne metta hanno il chiaro intento di incutere terrore e ansia nel lettore che, però, nel procedere dello scritto si sveglia dall’incanto. Sente che quel che viene presentato non è veritiero, non ha sufficiente forza “a trattenere”, cerca istintivamente una risposta nella logica che oltretutto trova (quando non dovrebbe). Perché per quanto alcuni fatti possano sembrare completamente incomprensibili, nell’osservare la scena o nel porsi la giusta domanda, le alternative al paranormale ci sono e non sono nemmeno poche. La sensazione è un qualcosa di non naturale e lineare. Se da un lato abbiamo un King che crea un paranormale che non fatica a far credere al lettore anche il fatto più misterioso ma improbabile, in questo caso abbiamo un Carrisi che ci prova ma che sembra messo spalle al muro dai suoi stessi personaggi e dalle stesse vicende. Nonostante, ancora, rispetto al super deludente precedente capitolo “La casa senza ricordi”, piatto e inconcludente e con pure un finale estremamente opinabile, “La casa delle luci” abbia una struttura più solida con anche un minimo di evoluzione del personaggio, non convince. In primo luogo si torna indietro tornando a Hanna Hall (e questo fa presagire che tornerà anche nel quarto capitolo che aspettiamo a novembre/dicembre 2023), in secondo luogo non c’è un vero e proprio collegamento con il secondo capitolo che resta ancora aperto, in terzo luogo manca di capacità di trattenere. Lo si legge per curiosità, lo si ultima per lo stesso motivo ma la sensazione è quella di trovarsi davanti a un Carrisi “senza cartucce” o comunque con “le cartucce esaurite”. Una distanza abissale dall’autore delle origini con le capacità di entrare nella mente del lettore e inchiodarlo al libro. Questa serie, inoltre, non si capisce dove vuole arrivare. Proprio a livello di creazione. Sembra che si stia plasmando “in corso d’opera” più che avere un disegno più grande che viene seguito capitolo dopo capitolo.
In conclusione, senza infamia, senza lode. Un romanzo di intrattenimento dove si eccede con il paranormale senza però riuscire a convincere.
Commenti
1 risultati - visualizzati 1 - 1 |
Ordina
|
1 risultati - visualizzati 1 - 1 |
La Casa Senza ricordi è rimasta una mia lettura incompiuta, e quando non finisco un libro ho sempre un senso di colpa, per non essermi compenetrata abbastanza nel romanzo. Ma ora che leggo la tua recensione ne esco rincuorata...
"non ha sufficiente forza “a trattenere”," esattamente così l'ho percepito anche io.
Un saluto e grazie