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Mille giorni che non vieni
 
Mille giorni che non vieni 2022-10-13 15:14:28 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    13 Ottobre, 2022
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La libertà perduta

«Ma sai perché non m’aggio piegato, Polpè? Per amicizia, certo. Ma pure per fargli capire che una dignità la teniamo pure noi: io, te, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone. E che la dignità non se la possono comprare.»

Antonio Caruso sa bene di averlo commesso l’omicidio di Skorpio, sa bene di meritare la condanna, sa bene di non aver comunque fiatato al tempo e nemmeno ora sul suo possibile complice ma anche su come andarono i fatti. E sono sei anni che sta scontando, e sette quelli che gli restano, per questa sua pena che cela dietro la facciata perché lui pentito non è del gesto fatto, il fetente se lo è meritato di passare a miglior vita dopo quel che è stato fatto al compare suo. Eppure, proprio in uno di quei giorni che, come tanti, scorrono in carcere, ecco che Antonio si ritrova libero. Scarcerato. Libero. Scarcerato. Scarcerato perché il vero colpevole ha confessato il reato. Com’è possibile, si chiede, se appunto è consapevole di essere lui il vero artefice? Ben presto scopre chi ha confessato della morte ma scopre anche della sua fine. Torna in libertà, cerca di riconquistare la sua Maria Luce, bella come non mai seppur con quel suo parlare con i segni che manco sempre comprende se lei è particolarmente arrabbiata e quindi troppo veloce nel compiere, non vede l’ora di riabbracciare la sua Rachelina che gli ripete che sono mille giorni che non viene. Ma cosa può fare un ex galeotto con alle spalle una condanna per omicidio per tornare a una vita normale? Quale lavoro potrà mai trovare? A quali condizioni? E soprattutto, chi mai si fiderà di lui? Si rivolge a padre Vincenzo conosciuto in carcere e che un effetto su di lui, scopriremo, lo ha avuto.

«È vero, Caffeina sapeva come trattare i fantasmi degli altri. Perché i fantasmi lui li conosceva bene: ci combatteva giorno e notte. I suoi erano implacabili e non riusciva a domarli. Ogni tanto me ne parlava, e durante le nostre chiacchierate non mi chiedeva mai una consolazione o un facile perdono, piuttosto scavava nel profondo delle sue angosce per cercare di scacciarli quei fantasmi. Ma l’impossibilità di non poter rimediare a ciò che aveva fatto e al dolore che aveva causato, lo tormentava più di ogni altra cosa…»

Tuttavia, Antonio, sembra chiamarsele. Tante le circostanze che si trova ad affrontare, da un lato vi è il desiderio di riconquistare la moglie e mantenere l’affetto della figlia, dall’altro vi è il desiderio di sentirsi utili, lavorare, portare a casa i soldi che la compagna guadagna rovinandosi le mani, dall’altro ancora il desiderio di non tornare più dentro a un carcere. Ma cosa può fare? Tubi non ne sa aggiustare, imbiancare non è capace, muratore nemmeno, giusto un po’ con le macchine si arrangiava da giovinetto. Ed è qui che, per vie traverse, si ritrova a guidare camion. Gli viene procurata pure la patente. Sembra anche un cerchio che si chiude stante che, anni orsono, tutto è iniziato proprio con lui che aveva trovato lavoro come autista di questi mentre poi è finito in gattabuia. Gli offrono anche un lauto compenso, ad Antonio. Ottocento euro, poi dimezzati, per guidare il camion sino a un paesino della Calabria. Tanti soldi per una notte, tanti, troppi, soldi. Ma Antonio deve lavorare, deve pagare gli occhiali alla figlia, deve aiutare la moglie. Parte. Davanti è scortato da una macchina, dietro ha Gennaro, lo scagnozzo del mandante Tony. C’è qualcosa che proprio non gli torna in quel viaggio. Un qualcosa che lo convince sempre più di essersi cacciato in un gran bel guaio ma anche in una situazione losca ai danni di un qualcosa che nemmeno immagina.

«Ma per me era una frase tanto per dire, che non significava niente. Perché nella vita succedono cose piene di dolore che non puoi evitare e prima o poi ti toccano, e in quelle occasioni è giusto piangere, è un diritto che all’uomo spetta.
Però ci sono situazioni come queste, che sei stato stesso tu a creare. E allora, se ti metti a piangere, vuol dire solo che nella vita hai sbagliato tutto. E pure se ti sforzi, pure se cerchi di lottare, quello che hai sbagliato continua a stare là, come un’ombra nera che ti aspetta, e che quando meno ci pensi salta fuori, ti acchiappa per un braccio e ti ringhia sulla faccia.»

Arriverà il momento in cui Antonio scoprirà della verità e dovrà agire. Si dirà di farsi i fatti suoi ma poi non potrà tirarsi indietro perché a farne le conseguenze saranno persone innocenti, vite innocenti. Ci sarà un prezzo, come per tutte le cose. Ma ci sono anche momenti in cui la coscienza, la morale, la giustizia, vanno oltre e tu semplicemente devi fare quello che è giusto perché non puoi portarti il peso di non aver fatto.
Avrà inizio da qui una narrazione serrata, che trattiene il lettore attaccato alle pagine. Tante le tematiche che vengono trattate e che ruotano sì attorno al diritto carcerario, al reo, alla rieducazione del condannato, alla realtà carceraria, al reinserimento sociale con annessa e connessa fallacità del sistema ma che toccheranno anche la criminalità, l’immigrazione, il diritto di vivere, il diritto di avere una seconda occasione, la possibilità di auspicare a una vita dignitosa, all’umano trattato come oggetto utile in ogni sua parte e componente e poi buona a essere gettata dopo l’utilizzo.
Andrej Longo pone in essere una perfetta fotografia della realtà detentiva ma anche sociale del concreto vivere. Realizza un’opera che sa toccare il lettore nelle corde più profonde e sconvolgerlo. In appena 298 pagine offre a questo molteplici spunti di riflessione che non mancano di sollevare domande a cui è necessario dare risposte. Un libro dal quale non ci si riesce a staccare, si finisce in una notte. Un sincero ringraziamento, dal cuore, per questo regalo ricevuto. Inaspettato quanto incancellabile e prezioso.

«Non lo so se è una questione di coscienza. Per me il fatto è che ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati. Un po’ come noi che stiamo chiusi qua dentro, perché noi alla fine, per la maggior parte, siamo quelli che non avevano niente. Certo, abbiamo le nostre colpe, anche io ho le mie, non dico di no. Ma se io, tanto per dire, ero figlio vostro, allora forse non avrei fatto quella vita che poi mi ha portato qua dentro. Perciò alla fin fine, per rispondere alla sua domanda, penso che non si tratta di una questione di coscienza, ma più che altro di giustizia.»

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