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Ardelia e la mente dell’assassino
Ardelia Spinola, il medico legale ligure con il bernoccolo dell’investigatrice, si sta preparando per una serata romantica dal suo fidanzato Arturo, l’apicultore alchimista, quando riceve una telefonata di lavoro. Deve recarsi a Coasco, nella periferia nord-occidentale di Albenga, per i primi rilevi autoptici su un paio di cadaveri. All’arrivo si trova davanti ai corpi di due giovani (lei bellissima dai tratti slavi, lui latino) abbigliati come per una foto matrimoniale dei primi del novecento. Sono composti, attorniati da mazzi di fiori, nei pressi di una chiesetta di campagna. Non sembrano neppure morti se non fosse per i due forellini rossi all’altezza del cuore.
Questa volta, però, lei non vorrebbe farsi coinvolgere emotivamente, preferirebbe limitarsi a fare il suo lavoro di “frugamorti”, scrivere il referto e girare pagina, passando ad altro. Il destino, però, ha disposto altrimenti. Quando ancora gli inquirenti non sono riusciti a dare un’identità alla ragazza (lui è risultato essere un piccolo pusher di Genova) riceve una lettera anonima di una persona che, in un italiano approssimativo, le scrive di essere (forse) amica della biondina ritrovata morta. Così, volente o nolente, anche stavolta Ardelia si trova impelagata nelle indagini, perché non riesce più a staccare la testa da quel caso. E, come al solito, il pericolo è dietro l’angolo più inaspettato.
Questo è l’ennesimo romanzo che vede come protagonista Ardelia ed è pure l’ennesima reinvenzione della Rava come narratrice che cambia nuovamente stile: ora la storia ci viene narrata oltre che dalla voce (amica) di Ardelia, anche in terza persona, da un freddo osservatore immateriale che scruta da vicino l’omicida, la cui identità non ci viene mai nascosta, almeno a grandi linee, e che ne conosce gli stati d’animo e i pensieri. Difficili quelle pagine, che ci mostrano una realtà per noi inaccettabile, ma pienamente logica per chi sta perpetrando quegli atti terribili. Pagine che vorrebbero quasi convincerci che l'autore di quei gesti si trovi nel giusto, almeno secondo la sua prospettiva.
Il tema affrontato, infatti, è quello, scabrosissimo, dell’elemento soggettivo del delitto; cioè di come funzionino i processi mentali dell’assassino, di come costui elabori un animus necandi e di come esso possa essere frutto indesiderato non già di una malvagità lombrosiana, ma di uno stato di alterazione patologica che l’autore subisce come inconsapevole vittima. Sino a che punto dobbiamo ritenere colpevole uno che agisca con efferatezza, sì, ma a causa di una malattia che ne degrada il senso morale?
Come al solito l’A. si barcamena benissimo nella storia, stavolta davvero complicata, quantomeno nei rapporti tra i personaggi e che, nei capitoli finali, diviene quasi un thriller. Debbo anzi ammettere che sono decisamente più apprezzabili le pagine descritte in terza persona, quelle che ci raccontano le mosse e le sensazioni dell’omicida di quanto lo siano i labirinti mentali di Ardelia. Infatti quando prende la parola la dottoressa si percepisce una maggiore confusione nei pensieri, uno sbandamento che non le sarebbe usualmente congeniale, una nebulosità di sensazioni e di sentimenti che sconcerta e confonde, al punto da allentare i vincoli empatici che normalmente ci legherebbero alla protagonista. Questa scarsa lucidità, si riflette anche nella sua storia sentimentale con Arturo: a causa di una delle tipiche impuntature della dottoressa, che già in passato le hanno giocato scherzi simili, il loro rapporto riceve un brutto scossone, dal quale potrebbe pure non riprendersi. Soprattutto perché, lentamente, ma in modo inesorabile, come Banquo nel Machbeth, riappare il “fantasma” del Commissario Rebaudengo con un epilogo imprevedibile da deus ex machina.
Insomma se questo romanzo ci propone un’Ardelia un po’ scombussolata, meno intuitiva e un po’ più stanca del suo ruolo (e la storia, in quei punti, ne risente), complessivamente, però, il livello del libro resta alto e non sfigura tra quelli che l’hanno preceduto, anzi, certi passaggi che non possono essere riferiti, pena lo svelare di eventi importanti nella trama poliziesca, ci mostrano chiaramente il grande talento di narratrice della Rava.
Quando giungiamo all’ultima pagina ci resta una fame inappagata di rivivere ancora pagine di vita e di sentimenti di questa strana, ma umanissima “frugamorti”.