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Ardelia: non si sa mai cosa farà seguito alle ombr
Riviera di Ponente, in un freddo novembre, Ardelia Spinola, medico legale in Albenga, si trova a dover affrontare due autopsie che la toccheranno nel profondo. La prima riguarda il cadavere “spantegato” di una donna, finita sotto un treno della linea Ventimiglia-Genova. Se ne ritrova così poco che Ardelia può solo stabilire che era ancora viva quando è finita sotto la motrice, che neppure ha rallentato, e che non era sotto l’effetto di droghe o alcol. Suicidio? Sembrerebbe di sì; del resto la donna era depressa, costretta a un matrimonio senza amore con un uomo indifferente a tutto, fuorché al gioco d’azzardo che si stava mangiando i loro soldi.
Il secondo morto viene scoperto alcuni giorni dopo. Si tratta del corpo di un vecchietto, tal Spartaco Guidi, che Angiolina, l’amica di Ardelia capostazione di Albenga, aveva preso in simpatia, per l’assurda mania di girare, anche nelle giornate più assolate, con una torcia elettrica accesa e puntata per terra. Quando era scomparso improvvisamente aveva allertato l’amica, nella speranza che la potesse aiutare nella ricerca. Ardelia aveva scoperto che si trattava di una persona condannata a trent’anni di ospedale psichiatrico per l’omicidio di un amico, durante un raptus. Dimesso (guarito?), recentemente aveva deciso di tornare nella sua Albenga, chissà per quali motivi. L’uomo, se si escludevano quegli attacchi d’ira legati alla sua passione politica (si professava comunista duro e puro!), era una buona persona, gentile e mite. Chi può averlo bastonato a morte e seppellito in modo piuttosto approssimativo in campagna?
Mentre proseguono le indagini – dalle quali Ardelia non riesce a tener fuori il naso, ma, anzi, s’impiccia, indaga, chiede e… rischia – prosegue anche la sua vita privata con il nuovo fidanzato Arturo, apicultore-alchimista, con il quasi zio Gabriel, uomo dai multiformi ingegni, con la segretaria rumena Doina e con tutti i rovelli che, un’anima inquieta come lei, se non ci va a sbattere contro se li va comunque a cercare.
Ritrovare la scrittura pacata e serena di Cristina Rava è come rientrare a casa dopo una uggiosa giornata di lavoro e ritrovare il tepore e l’accogliente familiarità delle cose che amiamo e ci confortano. Apprezzo tantissimo il suo stile garbato e riflessivo; le descrizioni, spesso poetiche, non di rado toccanti; i ragionamenti e le riflessioni sempre profondi e mai banali, pure quando si occupano di raccontarci fatti abituali o, appunto, banali; la cronaca del quotidiano, ma pure il racconto dell’inconsueto o solo del diverso che viene spogliato, però, dell’aura ostile che i pregiudizi ci suggerirebbero.
Come al solito la vicenda investigativa è solo una buona scusante, ma ben narrata, per parlare della nostra vita di tutti i giorni, dei rapporti con le persone, dei sentimenti, delle speranze e delle nostre paure. È bello esser fatti partecipi dei pensieri di Ardelia, che ci risultano piacevolmente familiari, anche nelle loro consuetudini giornaliere. E, perché no, farci attirare dalle prelibatezze gastronomiche che, come ogni poliziesco italiano che si rispetti, non mancano mai e stuzzicano sempre la curiosità delle nostre papille.
Poi, seguire l’evolversi delle vicende personali di Ardelia ci regala quell’ulteriore (indiscreto?) gusto di spiare la vita altrui dal buco della serratura, però con l’affetto che si può provare per una persona che, se non fosse solo un flusso di parole stampate, ci piacerebbe avere come amica, pur con tutti i suoi difetti e le sue spigolosità.
Insomma un bel romanzo da leggere e godere in assoluto relax, ma senza staccare il cervello, perché i punti di riflessione, come di consueto, sono parecchi.
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Chiudo con un minimo, ma pignolissimo appunto. A un certo punto, la segretaria Doina, rumena, si definisce “slava”. Attenzione! Un vero rumeno non lo avrebbe mai detto. Loro si considerano, orgogliosamente, eredi dei Daci e dei Romani. Nulla a che vedere con i confinati, eredi delle steppe orientali.