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Amarsi un po'
Con “Leon” ritorna in libreria il fascino discreto del serial killer attraverso Grazia Negro, funzionario di Polizia in servizio presso la Questura di Bologna: trattasi, come è noto agli appassionati, non certo di un’eroina senza macchia e senza paura, tutta azione e avvenenza, tutt’altro, diremmo quasi che sia un travet della polizia, una giovane donna dei nostri tempi con distintivo e Beretta d’ordinanza, che cerca di svolgere al meglio, con zelo, impegno e scrupolosità, e con tanto buon senso comune, i propri compiti istituzionali.
Senonché, quasi per caso o per il volere di un bizzarro Fato criminologo, è però coinvolta suo malgrado, per indole e innata capacità di simbiosi comportamentale con i colpevoli, nel dare la caccia ai serial killer nostrani. Il Lupo, il Cane, l’Iguana, tanto per citarne alcuni, un giardino zoologico di assassini rituali.
L’ispettrice Negro, fin dal suo primo apparire nel noto, e incantevole, “Almost Blue”, è uno dei personaggi più noti e più amati dai lettori di Carlo Lucarelli, l’autore parmense è stato infatti tanto abile quanto geniale a delineare con tratti precisi, deliziosi, fini eppure ben marcati, felicemente scolpiti nell’immaginario dei suoi fedeli lettori, l’immagine di una donna comunissima, concreta, efficace, pragmatica, con la sua vita ed i suoi comuni problemi, che talora sviscera apertamente sulle pagine, quasi in complicità catartica con il lettore, i suoi momenti no, di puro sconforto o pessimismo, che sono quelli più frequenti nelle sue giornate, talora davvero difficili, esattamente come avviene nell’esistenza della maggior parte delle persone.
Ciò malgrado, Grazia Negro ha a che fare, nei romanzi che la vedono protagonista, con un campionario tanto squilibrato quanto temerario di serial killer della peggiore specie, non nel senso che sono patiti di omicidi sanguinari e sanguinolenti in stile grand guignol, tutt’altro, ma perché sono soggetti con l’apparenza di persone normalissime, perciò di difficilissima identificazione, e però insani, pericolosi, fuori dal mondo, letteralmente accecati nella ragione e negli occhi come nel caso dell’Iguana, assassino seriale cieco protagonista negativo di questo e di romanzi precedenti.
Una persona comune invischiata in vicende poco comuni, questo il piatto forte dello scrittore.
Carlo Lucarelli non è uno scrittore che tratta della criminologia per ricavarne thriller, o che discetta con competenza e precisione su impronte digitali, prove balistiche, reperti ed indagini genetiche, e tutto quanto fa del crimine una scienza, lo scrittore è invece su uno step ben superiore a molti colleghi che pure si cimentano con accuratezza su metodiche simili, Lucarelli fa molto di più.
Ci offre infatti romanzi dove il crimine, il reato, non sono ricondotti alla mera analisi scientifica, alla ricerca di prove inoppugnabili, ma crea storie, sviluppa nelle sue pagine non tanto indagini ma racconti, fa il romanziere e non l’esperto, certo è un autore ferrato in materia ma è bravo soprattutto nello scrivere, non nell’indagare. Quanto esprime per mezzo della sua creatura sono discorsi di stretta logica comune, non casuali ma intrinsecamente legati all’assassino schizofrenico, lunare, insensato e irrazionale, un individuo fino ad allora normalissimo, pur con le paturnie di chiunque, che disgraziatamente ad un certo punto del suo divenire, riceve degli input violenti ed esiziali tali da ferirlo nel profondo in maniera straziante, al punto che per sopravvivere deve ripetere, e restituire ad altri, quanto di male e di orrido ha ricevuto dalla vita.
Come dire, un do ut des del dolore, della violenza e della sofferenza patita, che la criminologia indaga, la giurisprudenza riconduce a reato, pena ed espiazione, ma chi è tra i due estremi, Grazia Negro nel nostro caso, deve gestire al meglio, identificare il colpevole, spesso a rischio della incolumità personale. Grazia Negro è un poliziotto che, fin dal suo primo apparire, si è resa conto in fretta che ciascuno è quello che è in conseguenza del suo vissuto, e ha il buon senso di mantenere le distanze da certi fatti e dinamiche che sa superiori alla propria capacità di gestione: non è una prolifer, meno che mai milita nei RIS. Tuttavia, il suo vissuto è un mix di brivido e suspense, di aberrante ed allucinante, le storie della nostra protagonista sono infarcite da dotte ed accurate dissertazioni di criminologia, da prolifer intenti a delineare le caratteristiche peculiari di soggetti tanto lucidi quando dissennati, interventi di RIS, prolifer e CSS all’italiana, tutti fanno da contrappunto alla logica tanto semplice quanto stringata di Grazia Negro, quella che in ultima analisi deve vedersela con il reo.
Perché il colpevole, il serial killer, più spesso è un topo, si intrufola, inarca la schiena, rosica e rode con violenza e frenesia: allora Grazia Negro è un leone, e come la montagna dell’anaffettività può partorire un topolino, è anche vero che il leone ha paura del topo, Grazia Negro non è un’incosciente, o una sprovveduta, teme l’Iguana et similia. Ed a ragione.
Ma non si tira indietro. Seppure con il cuore in gola.
Il suo lavoro, normalmente di routine nella contrapposizione al crimine comune, per quanto violento, d’improvviso le presenta altri incontri o per meglio dire scontri insoliti, inconsueti, crudeli, che più spesso la destabilizzano emotivamente nella sua sensibilità di donna.
Grazia Negro cerca in qualche modo di “capire” i colpevoli, non tanto a fini di redenzione morale ma per poterne interpretare i gesti, prevenirne le azioni e porli in condizione di non nuocere, prima di tutto a sé stessi, ma questa sua capacità di “captare” gli umori di queste persone disturbate, a lungo andare minano il suo equilibrio di persona razionale, le sue convinzioni morali, la sua pietas umana.
Soprattutto, perché la Negro si rende conto che quelli a cui lei dà la caccia, più che mostri, sono in qualche modo le prime vittime di altri mostri, il più noto e frequente di questi mostri è proprio l’insospettabile, l’amore, anzi il mal d’amore, la sua carenza assoluta, o gli abusi commessi nel nome di quello, sono tare, radici malefiche che stanno alla base dell’agire criminoso di alcuni individui.
Non a caso Carlo Lucarelli denomina il suo ultimo, ottimo e fortunato lavoro prendendo a prestito il titolo di un pezzo dei Melancholia, giacché lo scrittore parmense, noto per i precisi, accurati e icastici rimandi di criminologia nei suoi thriller, ci riconduce così, sic et simpliciter, da subito, direi senza mezzi termini dalle prime righe, senza se e senza ma, alle motivazioni reali, sostanziali, profonde che spingono nel loro agire un tipo particolare di criminali, i serial killer.
Per costoro, l’omicidio altro non è che una reiterazione rituale di uno sterile processo di sopperire a grandi, e devastanti, carenze affettive: un voler amarsi un po', sentirsi amati, apprezzati, inclusi in una sfera emotiva condivisa, come recita la canzone:
“Amor, Tu non sai dove trovarmi…”
Uccidono per essere giocoforza presi in considerazione, convinti che la considerazione prelude all’ammirazione e poi all’attaccamento affettivo, uccidono quando avvertono di non essere ricambiati non considerati degni di essere amati, uccidono per un senso di rivalsa, per riprendersi quando non gli è stato dato o di cui hanno subito abuso.
Essenzialmente quindi, l’assoluta mancanza di un valido sostegno emotivo, un pieno, maturo e sostanzioso carico affettivo che ne accompagni la scoperta di sé e della propria identità di persona durante la delicata fase della crescita, è alla base del divenire di un assassino seriale.
Volendo sintetizzare al massimo, quello che provoca i guasti peggiori nella psiche di un individuo, spingendolo nei casi estremi a ripetere un macabro rituale altro non è che un reiterato tentativo di esorcizzare carenze, paure, mancanze nel proprio iter esistenziale, un killer seriale uccide più volte ogni volta il proprio mostro interno che tanto lo ha afflitto e torturato nel corso del tempo, aggravate da una profonda considerazione di sé stesso, si ritiene infatti superiore in astuzia, intelligenza e abilità a chi gli dà la caccia, ma tale presunzione di fondo altro non è che una celata disistima di se stesso, non si ritiene inconsapevolmente in grado di amarsi un po'.
Allora tende a celarsi, è maniacale nel fingere, nascondersi, depistare, e questo lo rende pericoloso e difficile da fermare. Ci riescono bene solo gli addetti ai lavori, poliziotti non più bravi degli altri, ma che riescono a “sentire”, a empatizzare con gli assassini, ad intuirne, coscientemente o meno, la loro natura. Con dispiacere, magari, giungono a negarsi quasi con riluttanza alla loro struggente richiesta: “…mi ami?”.
Perciò serve sparare, seppure a malincuore Grazia spara per difendere non tanto sé stessa, quanto le proprie bimbe gemelle, come a dire le generazioni future, il consorzio civile.
Sperando sia l’ultima, ma in fondo al suo cuore sa che…è solo fino alla prossima volta.
Carlo Lucarelli ancora una volta ha colto nel segno, la sua prosa è sempre la stessa, quella mirabile, asciutta, incisiva, lineare, la stessa con cui racconta le gesta di Achille De Luca o Marco Coliandro,
quella con cui ammalia la platea televisiva, qui poi rende appieno la suspense e la tensione con pagine di una sola riga, impronte indelebili del soffio dell’assassinio seriale, del suo pensiero, della sua logica o forse della sua disperazione. Lettere incise come su un blocco di granito, e però pulsanti, inquietanti, il talento dello scrittore parmense non è tanto quello di descrivere, ma di suggerire, non offre immagini, suggestiona a crearle, Carlo Lucarelli non è un serial killer dell’immaginazione di chi lo legge per imporre la propria, anzi, è uno stimolatore di immagini ed azioni, ognuno ritrova la propria grazia, o il proprio mostro, quelli a lui più congeniali. Sempre risalta il suo amore per Bologna, descritta nelle ore più tenui e nella sua veste migliore, con le sue piazze, i suoi monumenti, una città che cambia toni, colori, letteralmente accoglie chiunque semplicemente cambiando magistralmente pelle. Come fa un’Iguana, e che Carlo Lucarelli riporta con Grazia.