Dettagli Recensione
Troppa polenta
I generi letterari, sempre che esistano ancora, sono spesso associati ai colori: giallo, rosa, nero. Ma qual è il colore dei romanzi di Alice Basso dedicati alla graziosa e apparentemente frivola dattilografa Anita Bo? Servirebbe coniare un nuovo genere a tinte pastello che possa rappresentare queste pagine leggere e frizzantine, in grado di mescolare sentimento, storia e un pizzico di mistero allo scopo di intrattenere con garbo, senza prendersi troppo sul serio.
Siamo nella Torino del 1935 e la cura con cui viene tratteggiato il contesto testimonia un approfondito lavoro di ricerca, eppure la storia rimane sempre sullo sfondo, solo intravista attraverso gli elementi di costume, i personaggi e i piccoli dettagli d’epoca con cui l’autrice si diverte a giocare. Scopriamo così la meravigliosa Petronilla, che dalle pagine del Corriere dispensa ricette per cucinare ottime creme all’uovo senza uovo o salse di lepre senza lepre. Facciamo la conoscenza di tanti protagonisti, e protagoniste, della letteratura hard-boiled del tempo, a cui, proprio come Anita, finiamo per affezionarci. Impariamo a muoverci tra l’atletismo dei sabati fascisti, la carità ipocrita dell’Opera Nazionale per la Maternità e l’Infanzia e la tristezza delle case di tolleranza.
Uno sguardo speciale è riservato infatti alle donne. A ben guardare, fatto salvo Sebastiano Satta Ascona, anima letteraria della rivista Saturnalia, che affianca passo passo Anita nel suo percorso di crescita personale, civile e sentimentale, tutto ruota intorno a figure femminili. La solida amica Clara e la professoressa controcorrente Candida, coinvolte ancora una volta in avventate scorribande investigative. Le ragazze madri Gioia e Diana, con le loro storie di sopruso e dolore. E ovviamente Anita, sempre più appassionata e consapevole nel suo desiderio di giustizia, nel suo bisogno di alzare la voce in un mondo che impone il silenzio.
La scrittura briosa e ironica di Alice Basso è garanzia di piacevolezza, eppure devo ammettere di avere avvertito una certa stanchezza nella lettura. Una sensazione già presente negli ultimi due episodi dedicati alla ghostwriter Vani Sarca, che avevo in quel caso attribuito alla trama, e nello specifico al dilungarsi di una serie che per mio gusto avrebbe potuto chiudersi prima, e che qui invece si rivela chiaramente frutto dello stile più che dell’intreccio. Similitudini quantomai bizzarre, interiezioni piemontesi e il gioco dell’italianizzazione delle parole sono una sorta di marchio di fabbrica, e mi hanno strappato ancora un sorriso, ma all’ennesima “Santa polenta!”, fritta o coi funghi che fosse, questa volta ho davvero sentito il bisogno di chiudere per un po’ il libro, come per prendere fiato da un'afa di patinato entusiasmo. Giudizio in sospeso, aspettando la prossima avventura.