Dettagli Recensione
L’ araba fenice
La consuetudine richiede di etichettare un romanzo in base al genere letterario.
Secondo quest’ usanza, l’ultimo libro di Ilaria Tutti sarebbe da ascrivere al genere thriller, o giallo, o mystery che dir si voglia, insomma una semplice narrazione di genere poliziesco, che tiene avvinto il lettore producendo tensione e suspense.
Certamente è anche questo, un dramma, un enigma che tiene desta l’attenzione e l’interesse: però prima di ogni altra cosa è davvero una bella storia, un racconto interessante, intrigante, intenso e profondo, un romanzo elegante.
“Figlia della cenere” di Ilaria Tuti è un libro fine, di gran classe, fluente, impeccabile, presenta una scrittura linda, scorrevole, pregiata, un modo di narrare colto, ma accessibile e attraente per chiunque.
La storia attira e incuriosisce, soddisfa e appaga, e intanto insegna, suggerisce, istiga a riflettere su quel mosaico umano non solo metaforico, anche reale, antico, un affascinante reperto archeologico citato in questo libro:
“…dentro una chiesa…ad Aquileia…c’è questa cripta incredibile…il pavimento musivo paleocristiano più esteso ed antico d’Europa rimasto sotto terra per millecinquecento anni.”
Un mosaico intricato e complicato, formato da un numero innumerevole e finito di frammenti esistenziali, di tasselli da puzzle, di tessere tutte diverse eppure tutte uguali, intarsiate, pregevoli, o anche infime, disastrate, più spesso ottagonali, con angoli, forme, colori, rotture e screziature varie e variegate, che nell’insieme rappresentano un reperto che richiama alla mente l’animo umano come effettivamente è, un mosaico di sentimenti di vario genere visti nella sua costituzione, e nel loro intrecciarsi ed interagire tra loro nel progredire dell’esistenza.
Tutto il racconto è porto al lettore in forma accurata, premurosa, un modo di fare semplice ed elegante ad un tempo, presenta una struttura narrativa su tre piani temporali intersecantisi tra loro in modo armonico: l’alba dei tempi, e poi l’ieri, ed infine l’oggi, con un narrare mai sofisticato o fine a sé stesso, ma luminoso, illuminante, limpido e lucente.
L’autrice racconta, e illustra; ci fa vedere quanto narra, lo delinea in tante tessere e di tutte le singole miniature dispiega i minimi particolari, li riporta in luce, fossero anche sepolte sotto strati di terra, spolvera via la polvere del tempo, rivela così i motivi profondi dell’agire e del sentire e dell’essere dei propri protagonisti, siano essi un commissario di polizia o un assassino seriale a cui lo stesso dà la caccia.
Questa è un’opera curata nel tempo, lavorata a lungo, che ha richiesto analisi, accertamenti, riscritture, insomma fatica e impegno, non c’è un solo capitolo, o paragrafo o rigo fine a sé stesso, ogni termine trasuda la ricerca del modo più semplice, chiaro ed efficace per giungere al cuore ed alla mente del lettore e trasmettergli l’anima della storia narrata.
Per questo è un romanzo elegante: perché ordinato, perfetto, tirato a lustro.
In sintesi, è un libro al femminile, che possiede un’anima bella, e la veste elegante, agghindata in maniera regale e inappuntabile.
È una storia completa, compiuta, non solo perché porta a termine come meglio non si potrebbe l’epopea della protagonista principale della maggior parte dei romanzi di Ilaria Tuti, il commissario di polizia Teresa Battaglia, ma può leggersi anche senza nulla sapere delle sue avventure precedenti.
Solo, vale ricordare che sempre le protagoniste principali degli editi della Tuti sono donne, il commissario Battaglia di cui abbiamo accennato, e altre donne, come il fiore di roccia Agata Primus e le altre “portatrici carniche”, tutte originarie dei luoghi natali della scrittrice, il Friuli.
Sempre la Tuti ambienta le sue storie nella sua regione, tra le sue valli, le sue montagne, ogni volta riportandoci luoghi e fatti di cui molti sono all’oscuro, forse ignoti anche alla stessa autrice prima di rinvenirli. Qui, ad esempio, ci parla di Aquileia:
“Aquileia la dimenticata, Aquileia la sconosciuta. Non da tutti, ma da molti.”
I personaggi femminili di Ilaria Tuti, le “sue” donne e forse la scrittrice stessa, se è vero che ogni scrittore mette un po' di sé nei suoi personaggi, sono la quintessenza della moderna femminilità: non femministe, ma donne perché donne, liete di essere tali, non mogli, madri, figlie o etichette varie ma persone, consce del loro valore e del loro essere senza presunte superiorità di genere, differenti solo dal carattere biologico e da un sentire diverso dall’altrui genere, certo non per capacità e intelligenza.
Soprattutto sono donne in virtù dell’empatia particolare che sono in grado di provare per il resto dell’umanità, specie per quella più sofferente, non a caso Teresa Battaglia è una profiler di alto livello, e lo è non solo per gli studi e le competenze, ma per l’empatia che prova per gli autori dei delitti su cui indaga.
“Quella donna conosceva il linguaggio del corpo. Avrebbe potuto sezionare lui e le sue insicurezze con considerazioni spietate, e Dio solo sapeva quanto avrebbe avuto ragione.”
Teresa Battaglia sempre prova amore, e poi pietà, e autentico dolore, per le vittime dei crimini su cui indaga: e però sa perfettamente che la prima vittima di un serial killer è l’assassino stesso.
A differenza dei sodali e colleghi maschili, magari posti più in alto nella gerarchia del comando, la Battaglia comprende che per scoprire un assassinio serve investigare sui motivi che lo hanno spinto a divenire tale.
Più spesso, si tratta di motivi tali che ad essere perseguiti dovrebbero essere altri, gli autori di efferatezze fatte agli assassini, in epoca particolarmente sensibile, più spesso consapevolmente.
“Siamo tutti vittime di qualcuno e tutti siamo stati almeno una volta carnefici”
Solo una donna può possedere tale speciale empatia, non è la sua una banale motivazione sociologica o presunta tale, una forma perbenista finto alternativa di giustificazione dell’assassino, è un’empatia reale, unica e sottile nei suoi confronti, fortemente connotata di umanità, che solo una donna può essere in grado di estrinsecare per farsi guidare nella giusta direzione.
Teresa Battaglia assicura gli assassini alla giustizia innanzitutto perché smettano di continuare a fare del male a sé stessi, prima che agli altri, rinuncino una volta per sempre a punire sé stessi, e per farlo serve solo l’amorevole sensibilità di una donna, difficile da riscontrare in un uomo.
“Teresa Battaglia, invece, accettava la loro natura e così facendo la strappava al senso di repulsione. Lei riusciva a prendere tutto dalle persone che aveva davanti, anche l’orrore più grande, come un dato di fatto. Ecco perché era così brava nel suo lavoro. Non giudicava, non si scandalizzava. Cercava sempre di comprendere. Ma questo aveva un prezzo. Soffriva, con loro.”
Pertanto, Teresa Battaglia è l’emblema della battaglia che ogni donna quotidianamente intraprende per vivere la propria realtà esattamente come sa di poterla vivere, senza se e senza ma, solo come persone senza condizioni, conflitti o prevaricazioni o altri inutili e pretestuosi distinguo.
Un buon romanzo, in definitiva, e certo, un buon thriller.
Perché è la vita stessa che è un thriller: non sappiamo però cosa definisce meglio un simile genere, se la presenza tra i personaggi di un assassino seriale, oppure se è più specificamente da dirsi thriller, perché in realtà è un’azione ben più violenta, l’orrore indicibile ed inverosimile di torturare nel fisico e nella psiche in formazione un bambino, quasi a punirlo di essere al mondo, negargli amore, affetto, attenzione paterni, addirittura il nome, agire con tanta crudele indifferenza ed anaffettività da provocargli un buco al cuore ben più grave di una disabilità congenita di cui è sfortunatamente affetto.
“Chi può spaventare lo spavento?”
Cosa provoca maggior timore, paura autentica se non vero terrore, un comune accidente delittuoso, o il vivere ritrovandosi come marito un compagno brutale, violento, temibile per gli atti, le parole, le angherie fisiche e morali al chiuso delle pareti domestiche?
È un thriller, quello sì, la violenza sulle donne, la violenza domestica, le torture di ogni genere che una bestia esercita quotidianamente sulla propria compagna; come definire se non un orrore, un thriller, la sottile, subdola, vile, tragica violenza domestica di genere, per mero malato possesso di una donna?
“Avrebbe voluto dirle che a volte le persone non si avvicinano per ferire o infierire, e avrebbe voluto chiederle che cosa le fosse successo per farle credere il contrario…”
Sconvolge e annienta la perdita di un figlio, ancora in grembo, da parte di chi quel figlio avrebbe dovuto averne cura: questo suscita terrore autentico, questo sì, ti riempie il cuore di dolore e di pietà, molto più di un omicidio, per quanto efferato.
Ilaria Tuti tutto questo ce lo racconta, solo per questo la si definisce scrittrice di thriller; io la definirei piuttosto una ricercatrice, che rinviene il thriller celato nel comune quotidiano.
Ancora oltre, siamo quello che siamo in virtù del nostro vissuto, delle nostre esperienze: serbandone ricordo, modelliamo il nostro comportamento futuro, quindi la nostra consapevolezza di vivere coscientemente al meglio, inseguendo speranze e progetti, anelando attimi di felicità.
Non c’è thriller peggiore di accorgersi che, lentamente ma inesorabilmente, i nostri ricordi tendono a svanire per non ripresentarsi mai più.
Non esiste thriller peggiore, o migliore secondo i punti di vista, della sindrome di Alzheimer, o di altre forme di demenza, tali da provocare un lento, inarrestabile declino delle capacità di memoria, del pensare e del ragionamento.
I ricordi, lieti o meno, ci rappresentano, siamo quello che ricordiamo.
Perderli, significa perderci: in tutti i sensi, soprattutto significa perdere la nostra fiamma vitale, l’amore. Significa bruciare l’albero della vita che siamo, ridurci in cenere.
La cenere non brucia oltre, non alimenta fiamme.
Puoi solo stringerla tra le dita, ma impalpabile com’ è, sfugge via, si dissolve nel vento: questo sì che provoca sensazioni da thriller.
Polvere eravamo e polvere torneremo ad essere, è scritto: polvere, non cenere.
Quello che brucia si esaurisce, e scotta.
Teresa Battaglia è figlia della cenere, ma potrebbe invece definirsi più propriamente come l’araba fenice, che si diceva in grado di rinascere dalle proprie ceneri.
Perché Teresa Battaglia, in qualche modo, riesce a rimettersi in gioco, dopo le disgrazie e gli errori.
“…era rinata, e non dalla costola di un uomo che si credeva fatto a immagine e somiglianza di un Dio, ma dalle proprie, incrinate, doloranti, spezzate.”
Teresa Battaglia rinasce dalle proprie ceneri, come l’araba fenice: sanno farlo ogni giorno tante altre donne, come lei, e come lei impegnate ciascuna in una personale battaglia.
Esattamente come ci racconta Ilaria Tuti in questo bel thriller, pardon, in questo ottimo romanzo.
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