Dettagli Recensione
Le voci di dentro
Riesce difficile delineare in poche righe l’ultima fatica, perché essenzialmente di duro lavoro bisogna parlare, di Mirko Zilahy.
Un lavoro che è costato tempo e fatica al suo autore, senza dubbio è risultato bene, ma proprio perché tale, non è stato affatto facile da portare a termine, è risultato letteralmente uno scavo.
Un traforo di quelli ardui, dove devi procedere piano, per non creare smottamenti, devi puntellare bene la volta, e inoltrarti stando attento alla comparsa del grisou.
La storia si presenta proprio come abbiamo appena accennato: si parla di cave, di miniere, sonde geofoniche e professori universitari intenti in trivellazioni, in estrema sintesi di geologia, scienza tanta ostica e sconosciuta ai più quanto curiosa ed interessante, se ben presentata. E Zilahy la presenta bene, bisogna riconoscerlo, ha compiuto davvero un gran lavoro di ricerca, uno scavo ancora una volta, lui che geologo non è ne discetta con competenza, quasi ce la fa amare, certo ci coinvolge e ci intriga.
È un libro che ne contiene altri, una struttura di travi tutte portanti, ed importanti, una architettura di stili, generi e forma differenti e abilmente coordinate, non è qualcosa quindi che sorge spontanea e vive motu proprio, l’input iniziale va curato come un bonsai, potandolo e lavorandolo così da indirizzarne la crescita ridotta, costringerlo a svilupparsi costringendosi e diminuendosi, senza espandersi fuori misura. Il bonsai è una bella creatura, naturale ma non facile ad ottenersi.
Dimenticatevi le opere precedenti del giovane autore, questo romanzo non ha niente a che fare con la precedente trilogia del caos che gli ha procurato fama e popolarità, ed a ragione, qui e ora non abbiamo a che fare con serial killer sulle cui tracce si pone l’acuto e testardo, tenero e disincantato Commissario Mancini. Abbiamo tutt’altro, anzi molte cose in un sol tomo: questo è un libro corposo, una storia tosta che cattura, senza dubbio, però risulta difficile non tanto da digerire quanto nel degustare, diciamo che ci vengono serviti tanti piatti di alta cucina, e tutti gustosissimi, ognuno diverso dall’altro, ma appunto una lista lunga, appetibile ed appetitosa. Troppe portate.
Sono tutte delizie del palato, ma corri il rischio non tanto di mettere su chili, dopotutto è un geo -thriller, immette adrenalina in circolo e il metabolismo si accelera, il problema è proprio che i capitoli sono ben scritti, lo stile è colto, erudito, veramente raffinato e letterario, poco da dire in proposito, l’autore ha una scrittura intensa e straordinaria, coltivata, forse gli deriva dalla sua attività di traduttore. Come che fosse, è innegabile che Zilahy sa scrivere, utilizza termini armonici ed appropriati per ogni concetto. Intendiamoci, non è mai borioso o presuntuoso, supponente e vanesio, tutt’altro, ha un modo molto umile di porgersi, rende edotto con semplicità il pensiero, rende forbito il semplice, con una naturalezza che incanta.
In sintesi, cucina manicaretti gustosi utilizzando ingredienti fini, delicati, eccelsi: non puoi resistere, rischi di assaporarli tutti senza nemmeno accorgertene, e così finisci che non ne gusti appieno nessuno. Il troppo storpia, l’unica è limitarti ad assaggi: per questo il libro va letto con calma per poterlo apprezzare, tutto di colpo diventa indigesto.
Ne viene fuori quindi un pranzo squisito, di gran classe, con varie portate, ma luculliano: nel caso esageri ti consola, ma rischi di appesantirti solamente, senza costrutto gustativo, le pietanze ti riempiono soltanto, per quanto deliziose, possono lasciarti insoddisfatto, è questione di costituzione.
In altre parole, è un racconto denso e compatto che dimostra subito, con tutta evidenza, quanto ha richiesto al suo autore in tempo e applicazione, attenzione, cura e riscrittura premurosa.
Prendiamone atto, non divoriamolo, ma assaporiamolo.
Questa dicevamo è un’opera diversa da quelle che l’hanno preceduta, l’autore è passato, e con pieno merito, ad uno step successivo, un livello più elevato, comunque restando fedele al suo stile, che però si è evoluto sia nella forma che nella sostanza.
Perciò ”L’ uomo del bosco” è un libro nuovo, è un libro di Mirko Zilahy che del precedente Mirko Zilahy ha mantenuto le caratteristiche, l’autore però ha virato di bordo, lasciando le vie urbane per la piccola provincia, quasi volesse rimpicciolire le sue visuali, poi in senso inverso ha modificato il suo linguaggio espressivo, livellando verso l’alto.
Soprattutto, il soggetto del suo pensiero è diverso: non più storie di ordinaria, e disperata, umanità, ma qualcosa di ben più difficile da estrinsecare, Mirko Zilahy si cimenta con l’onirico, con il pensiero interno, con l’immaginario interiore di ognuno, amplifica le nostre voci di dentro, visualizza i ricordi.
Si cimenta quindi con la dimensione individuale più difficile da delineare per uno scrittore, il ricordo: che spesso, nemmeno sapremmo dire quante volte, tendiamo a rimuovere o a modificare a nostro consumo personale, ed è problematico riportarlo in superfice, talora deleterio, però sempre avvincente, stuzzicante, coinvolgente, sempre utile.
“Siamo ciò che ricordiamo, ma siamo soprattutto ciò che abbiamo dimenticato.”
Mirko Zilahy ha scritto tanto, e bene, si è prodigato in questo suo ultimo progetto, ci offre molto e tanto, sogni e incubi, ricordi e fantasmi, scomparse e affetti mancati, genitorialità confusa e disperata, e ancora mondi sotterranei, cieli stellati, linguaggi tecnologici nuovi.
Simboli, simbolismi, acchiappasogni e riti degli indiani d’America trapiantati nella provincia italiana, e poiché i ricordi li evocano gli adulti ma risalgono all’infanzia, qui si parla anche di ragazzini, di amici d’infanzia, solo per questo legati da vincoli magici che li costringono a riallacciare i rapporti da adulti, e poi musiche, suoni, armonie.
Perché i ricordi vengono da dentro, le voci di dentro sono sibili che tramutano azioni, provocano cadute e ricadute, perdite e tentativi di recupero, esplosioni e frane.
Ricordi che sono, ancora una volta, memorie del sottosuolo, in tutti i sensi.
“La memoria è una vecchia signora che gioca a scopa con la vita degli uomini. Tiene il mazzo in mano e bara tutto il tempo.”
Ricordi, bambini…e che altro? L’ignoto, il locus sconosciuto.
Tendiamo a credere di essere onniscienti, quando non onnipotenti. Conosciamo tutto l’ambiente che ci ospita, non esiste habitat del nostro pianeta che non sia stato minuziosamente esplorato, dalle cime dei ghiacciai eterni, al profondo degli oceani, all’interno delle più intricate foreste, nulla ci è sconosciuto. Possediamo la nostra Terra, ne abbiamo carpito i segreti, proprio perché la conosciamo in ogni dove. Niente di più falso.
Esiste tutto un mondo sconosciuto ai nostri sensi, tanto concreto che possiamo calpestarlo.
Noi non sappiamo nulla del nostro sottosuolo, per quanto abbiamo scavato, per quanto in basso abbiamo perforato la crosta terrestre, nulla più che per una parte infinitesimale rispetto alle sue dimensioni, tutto ciò che sappiamo del sottomondo è frutto di ipotesi e ricostruzioni, non di prove provate. Del sottosuolo si può solo immaginare costituzione, fisica, chimica, e sempre con prove indirette; finanche le sue manifestazioni più eclatanti con cui, quando gli gira, il sottosuolo si rivela, i terremoti, non ne sappiamo qualcosa di più solo dopo che si sono verificati, spesso disastrosamente per noi razza eletta, non sappiamo prevederli, ma solo constatarne gli effetti a babbo morto.
“Hai passato la vita sottoterra per dirmi questo? Che non è possibile guardare laggiù?”
L’assioma su cui Zilahy basa la sua narrazione è geniale, la usa come locus ignoto in cui tutto accade e tutto può accadere mancando la controprova, come “L’isola misteriosa” di Jules Verne.
E a Verne, e ad altri autori, lo scrittore, letterato colto, amante della lettura forse più della scrittura, strizza l’occhio, è impossibile non notare con quanto amore, rispetto e considerazione, per non dire tenerezza, Zilahy cita e ricorda l’indimenticabile capolavoro di Verne, “Viaggio al centro della Terra”, caposaldo dei sogni di ogni bambino all’età di lettura. Ancora, un gruppo di insoliti bambini della piccola provincia italiana, i perdenti per vari motivi tra i loro coetanei, sono i protagonisti assoluti che innescano la miccia che farà deflagrare un’esplosione tardiva dopo trenta anni.
Giocano nei campi, negli stagni, nelle paludi, tra i vecchi rottami di autovetture situate all’immediata periferia del paese, immediatamente a ridosso di vecchie cave in disuso, macchinari abbandonati, boschi fitti tra cui si intravedono figure inquietanti, hanno i loro rituali magici, il loro mutuo linguaggio, i loro segreti familiari…esattamente come i Perdenti protagonisti di “It” di Stephen King che bazzicano i famigerati "Barren", zone di campagna, ricca di vegetazione, con scarichi di fogne, cave in disuso, macchinari dismessi, e uomo dei boschi alquanto malvagio.
E che dire di un enigmatico “mostro da sbattere in prima pagina” che vegeta fino alla morte prima in un carcere e poi in un ospedale psichiatrico? Per molti versi paragonabile al Renfield del “Dracula” di Bram Stoker.
Le atmosfere generali, specie quelle notturne, il sottosopra, il mondo di sotto, lo spirito di iniziativa dei ragazzi, tutto riconduce a “Strangers Thinghs”, senza Undici a salvare capra e cavoli, però. Ancora, riecheggiano echi di altri testi, altre atmosfere, altri libri, altri autori: Donato Carrisi, per esempio, Thomas Harris, più quello del “Il delitto della terza luna”, di quello del “Silenzio degli Innocenti”, un pizzico di Dan Simmons.
Perché prima di essere uno scrittore, Mirko Zilahy è un gran lettore, come è giusto che sia, e rende omaggio ai suoi preferiti. Questa umiltà, questa dedizione, questa semplicità d’essere gli fa onore, traspare dalla sua scrittura, lo ripetiamo, una scrittura elegante, forbita, ricercata, estremamente efficace, esauriente, esaustiva; è questa il punto di forza del romanzo, senza nulla togliere alla storia.
È la scrittura che ci fa comprendere come l’amore talora, quando è perduto, strazia, ti fa precipitare nell’abisso, ed è la caduta che provoca un sibilo, un fastidioso acufene, che come una voce di dentro ti tormenta crudelmente spingendoti a recuperare disperatamente in qualche modo l’amore caduto, creando ombre fittizie, l’uomo del bosco, niente più che una memoria fittizia, una svista dal ventre della terra. Un mistero, ma non l’unico:
“Ci sono tre grandi misteri che dobbiamo riunire…Il primo è disperso nell’alto dei cieli, il secondo è celato nel cuore della Terra, l’ultimo riposa nel cuore di ognuno.”
Mirko Zilahy si schiera, lo dice chiaramente, quello del sottosuolo non è un mistero da temere, non per niente il nome della Terra è Gaia, sinonimo di gioia, allegria.
Gli uomini, invece, spesso trivellano e il loro cuore lo sotterrano.
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