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Gialli, rossetto e camice nere
Anita Bo nel giugno del 1935 è una ragazza di vent’anni piena di vita. È bella, anzi, molto bella e, a smentire i classici stereotipi, è pure dotata di una vivida intelligenza sbarazzina. Vive nell’operosa e attiva Torino. La sua famiglia gestisce una ben avviata tabaccheria nel centro della città. S’è appena fidanzata con Corrado Leone, un prestante ragazzo erede di una ricca famiglia di commercianti. Insomma sembra che la vita non le abbia fatto mancare nulla: avvenenza, intelligenza, ricchezza, amore, amicizia (con l’inseparabile Clara, il suo jang, e l’ex professoressa Candida, una vera sferza intellettiva). Ma, proprio quando Corrado le chiede di sposarlo, lei si fa pigliare da un irrazionale (o, magari, razionalissimo) panico. Sì, il suo desiderio principale è uscire dalla gabbia soffocante della sua famiglia, ma pur amando sinceramente il ragazzo, teme di entrare in un’altra gabbia, magari dorata, ma che la costringerà a recitare (a vita) il ruolo di brava, fedele mogliettina, madre della sterminata famiglia sognata da Corrado. Così, proprio mentre il ragazzo le descrive quella che per lui dovrà essere la loro vita futura, lei, per concedersi una tregua di almeno sei mesi, sbotta dicendo che, prima, desidera lavorare; almeno un po’, giusto per capire com’è la vita da impiegata per una donna degli anni ’30.
Purtroppo Anita è stata una pessima studentessa all’istituto commerciale per ragazze e le sue capacità di dattilografa sono davvero scarse, non parliamo della stenografia. Così, l’unico impiego che riesce a trovare, sfruttando la sua astuzia e la sua capacità di manipolare gli altri, è presso la casa editrice Monné, piccola realtà appena nata e divenuta famosa perché pubblica il mensile Saturnalia, uno dei pochi periodici dedicati alla nuova mania del momento: i gialli americani.
Qui farà la conoscenza con l’anima creativa della casa editrice (costituita, peraltro, da solo due persone): Sebastiano Satta Ascona, traduttore ufficiale dei racconti in lingua inglese e autore della serie italiana del commissario Bonomo, sciapo poliziotto, inserito a forza nella rivista per far contento il regime. Non fa a tempo a passare una settimana che Anita e Sebastiano si trovano a dover affrontare un vero delitto il cui autore, forse, è un personaggio eretto da poco a eroe di guerra dal fascismo. Che fare? Proseguire nelle indagini e smascherare il colpevole, magari in un racconto da pubblicare con qualche artificio sulla rivista? Così, però, potrebbero attirare le ire del regime. Allora dovrebbero forse dimenticare e insabbiare tutta quella brutta storia? Ma poi cosa direbbero le loro coscienze?
Alice Basso ci offre sotto le mentite spoglie di un giallo, una garbata commedia romantico-avventurosa ambientata nei difficili anni del “ventennio”, quando tutto filava liscio solo se si era rigidamente allineati alle direttive del partito. Lo stile è leggero e, a tratti, quasi frivolo, ma ben si adatta al carattere della protagonista: infatti, sebbene la narrazione avvenga in terza persona, sembra proprio che le parole escano di bocca alla ragazzina, intraprendente e garbatamente ribelle. La vicenda poliziesca di per sé non è particolarmente intrigante, poiché, sin da subito se ne conoscono, a grandi linee, i particolari. Quello che più preme all’A. è descrivere i personaggi e, soprattutto, esaltare la figura di Anita, giovane indipendente a dispetto del conformismo che l’attornia.
Divertono i vari tormentoni con cui è chiosato il testo (giochi per italianizzare le “vietate” espressioni straniere; similitudini e bislacche metafore, prontamente smorzate negli incisi; interiezioni piemontesi), anche se, alla fine, appaiono eccessivi nel numero e nella frequenza, quasi siano inseriti apposta per “strappare una risata a scena aperta”. Non disturba la spuzzata di tenue romanticismo che ammanta il racconto ed è sicuramente apprezzabile la descrizione dell’ambiente e dei costumi della Torino di ottant’anni fa, borghese, conformista, ma tanto fascinosa. La descrizione talvolta macchiettistica, di squadristi e gerarchi fascisti, appare un po’ forzata e troppo legata a stereotipi, ma il racconto non ne soffre particolarmente.
In definitiva si tratta di un romanzo leggero e divertente da prendere per quello che vuole essere: un piacevole intermezzo di lettura che ci riporta all’epoca dei nostri genitori o dei nostri nonni con delicata intelligenza. Non mi stupirei se l’A. s’affezionasse al personaggio di Anita Bo e ne facesse la protagonista per una nuova serie di romanzi.