Dettagli Recensione
La banalità della rete
Al centro di questo romanzo, il terzo della serie di racconti seriali che lo vede protagonista principale, è il commissario di Polizia Vincenzo Arcadipane, in servizio presso la questura di Torino.
Un poliziotto singolare, sia nell’aspetto che nel vissuto, diversissimo nella sua normalità piccolo borghese da altri suoi colleghi investigatori romanzati, sparsi per la penisola letteraria italiana. Arcadipane è un piemontese sabaudo e savoiardo, di quelli di una volta, per così dire, di quando cioè la FIAT a Torino e dintorni era letteralmente fiat lux: faro, luce e richiamo per il colto e l’inclita, ma da quando il colosso delle auto, e non solo, si è trasferito altrove, la città pare aver acquisito solo tinte crepuscolari; in realtà Arcadipane che la conosce bene lo sa, i chiaroscuri sono sempre stati insiti sia nella città che nella gente.
In sintesi, trattasi di un romanzo che ricorda, e non poco, nella descrizione di luoghi ed atmosfere, tanto Cesare Pavese con le sue langhe, che i due Fenoglio, lo scrittore Beppe dei gloriosi giorni di Alba, e il maresciallo dei carabinieri Pietro, presente nei romanzi di Gianrico Carofiglio.
Con qualcosa, nello stile di scrittura, che richiama il Simenon prima maniera, d’altra parte è inevitabile l’influenza della vicina Francia, manco a farla apposta le ultime pagine di questo libro di Longo sono ambientate in una malga piemontese per l’alpeggio di bovini, poco distante dal confine.
Insomma, un Montalbano versione piemontese, meno mare e piatti di pesce e più nebbia, agnolotti e tinte esoteriche, e però come quello vero, sanguigno, e radicato nel profondo nel suo territorio.
Arcadipane è un uomo del suo tempo, che il suo tempo, quale che fosse, lo ha vissuto ed impiegato al meglio; ora però il tempo è passato facendo il suo corso, oggi è un ultracinquantenne stanco, infiacchito, fuori forma, spossato da come sta andando la sua esistenza, se non a rotoli, certo in discesa ripida e con l’impianto frenante bisognoso di sostituzione in toto e non più di saltuari rabbocchi del liquido dei freni. Niente di tragico o particolare, come tutti, risente dei colpi che la vita non gli ha risparmiato nella professione, delicata e deprimente insieme quando ci si occupa di delitti e delle relative miserie umane, mestiere esercitato sempre con scrupolo, puntiglio ed applicazione, e una quantità inesauribile di buon senso pratico. Soprattutto, avvalendosi delle sue doti naturali, la tenacia, e un istinto infallibile per imboccare la pista buona, un istinto non da cane di razza, ma da mulatto da strada, che una volta convinti di aver individuato le orme giuste, seguono il sentiero fino in fondo, senza farsi fuorviare, incuranti di qualsivoglia elemento sviante le indagini, casuali o sistemati invece a bella posta per depistare le indagini.
Un uomo normale, che affronta la normalità dell’esistenza, e il male, il delitto, è cosa normale, fa parte della vita. Non dovrebbe, ma è così, e Arcadipane si dispone in campo per affrontarlo al meglio.
Se la vita è una partita di calcio, Arcadipane sa benissimo qual è il suo ruolo e la sua posizione in campo, quella di mediano settepolmoni, in mezzo al campo, in posizione mai statica, su e giù per aree e perimetro azzannando le caviglie degli avversari di maggior classe, senza mai perderli d’occhio, anticipandoli se riesce o asfissiandoli quando in possesso di palla.
Una vita da mediano, perché nato senza i piedi buoni, destinato giocoforza ad un ruolo fuori dai riflettori, e però essenziale e delicato, il centro nevralgico del gioco di squadra: se così lo ha cantato Ligabue, deve essere vero. Solo che, dopo aver calcato con onore l’erba o la terra battuta di tanti campi, ora Arcadipane ha meno entusiasmo, articolazioni meno forti e muscoli sfibrati, vorrebbe stare qualche turno in panchina, se non in tribuna, a riflettere sulla sua esistenza professionale, e di riflesso anche su quella privata: una recente separazione dalla moglie ancora nei suoi interessi sentimentali, e che invece ha già un altro compagno, il rapporto pressoché formale malgrado tutti i suoi sforzi almeno di apparire in presenza nelle loro vite con i due figli, che vede poco, male e di sfuggita, una ragazza di cui dimentica sempre cosa studia all’università ed un ragazzo, che tra l’altro calciatore lo è per davvero, militando nel Carpi in serie C; con tutta quanta la famiglia il solo legame che pare gli sia rimasto è il cane Trepet, un botolo di razza indefinibile. Che lo rappresenta bene, se è vero che un cane finisce per assomigliare al padrone: l’ineffabile Trepet è quieto, paziente, cocciuto, ed ha solo tre zampe. Incompiuto come il suo padrone, quindi. Tutta questo suo essere incompiuto, Arcadipane lo estrinseca in una sua ubbia: è un consumatore smodato di sucai. Le compra in quantità industriale, le distribuisce sfuse nelle tasche, sta sempre a portarsele in bocca senza neanche accorgersene, ne ha una dipendenza compulsiva e ossessiva, e certamente non hanno una funzione sostitutiva di altri vizi, dato che il nostro continua anche ad indulgere nel tabagismo. Per chi non le conoscesse, le sucai sono delle caramelle gommose alla liquirizia ricoperte in superficie da granelli di zucchero, insomma non proprio il massimo di una alimentazione sana e corretta, ma tant’è, il nostro commissario è un essere umano con tutte le manchevolezze della specie, tant’è che si fa aiutare da una specialista in supporto psicologico che egli affettuosamente considera una psicopazza, che insiste perché il commissario ponga fine alle proprie carenze affettive all’origine di tutte le sue mancanze e imperfezioni ed all’uopo si dia da fare ad allacciare interazioni sociali sui siti di incontri.
Davide Longo in questo suo romanzo e nei due precedenti ha il merito di aver creato un personaggio nuovo, simpatico, accattivante, umanissimo, diverso dai soliti investigatori di carta, normale e originale insieme. Un uomo qualunque, all’apparenza, ma è questo suo essere comune che lo rende positivo, gradevole a leggersi, Vincenzo Arcadipane, e le storie in cui agisce, non sono eroi o vicende straordinarie, sono persone e cose di tutti i giorni, ed il loro fascino sta in questo, rappresenta ciò che è noto e che si presenta comunque in modo ogni volta diverso.
La normalità che fa notizia, anche se più spesso la notizia tende a divenire normale.
Il commissario è tanto insolito quanto ordinario, appare banale ma prende, affascina, si fa seguire, ci sembra estremamente fragile ed invulnerabile, ed invece è semplicemente un uomo che non si nasconde, non maschera le proprie debolezze, sconfitte, insoddisfazioni, ma appunto questa consapevolezza ce lo rende gradito, lo rende forte, reale, vincitore.
Il suo acume investigativo sta in questa sua normalità, Arcadipane ha l’efficacia di colui che non da nulla di scontato, non ritiene di essere un genio che tutto risolve, ma ha bisogno di vedere, di soppesare, di andare a fondo alle sue intuizioni ed delle proprie sensazioni, darle un ordine ed un senso, senza lasciare che le cose scorrano in una e in una sola direzione, perché è proprio la sua esistenza che gli comprova che le cose prendono talora vie nuove, impreviste e all’improvviso, e non per questo prive di logica e verità.
Una povera badante straniera è brutalmente attaccata a calci e pugni e ridotta in fin di vita all’uscita della metropolitana; tutta la violenza è ripresa dalle telecamere di sicurezza, ed il ragazzo colpevole facilmente identificato e arrestato, oltretutto anche dato l’eccentrico abbigliamento con il quale si era vistosamente camuffato. Il giovane è uno che:
“Ti piace menare le mani, andare in curva, frequentare posti dove qualche volta si fa rissa e hai anche due arresti per spaccio da minorenne. Per non farti mancare niente la seconda volta hai pure rotto il naso ad uno degli agenti”.
Insomma, un caso plateale, un colpevole senza ombra di dubbio, date le prove televisive.
E però, il ragazzo non lo ammette. Nega di essere il responsabile. Consente solo all’abbigliamento vistoso, a suo dire indossato per tenere fede ad una scommessa, niente più che un gioco.
Ma non ha commesso alcun pestaggio, lo nega con tenacia e convinzione.
Nessuno gli crederebbe, è un caso eclatante, un caso chiuso, il solito balordo che ne ha commessa una più grave del solito. Un ragionamento che vale per tutti, ma non per Arcadipane.
Che dà retta al suo fiuto, manda in giro i suoi uomini con precise direttive, e di verità ne appronta un’altra. Forse altrettanto malevola, altrettanto assurda, incredibilmente mediocre, il male per il male senza altro movente, un male banale, come è sempre banale il male, come lo definì Hanna Arendt.
Questione risolta? Affatto: Arcadipane non desiste neanche da sé stesso, basta un’indecisione nel nuovo sospettato per farlo dubitare ulteriormente anche della sua stessa seconda opzione.
Poiché non è un eroe solitario, poiché sa perfettamente i propri limiti, le proprie imprecisioni, la propria assoluta normalità, e quindi può sbagliare e sbagliarsi come chiunque, Arcadipane che è uomo da sport di squadra la sua squadra ricostruisce, chiede cioè supporto ai fidati compagni di percorso professionale, da cui ora i casi della vita lo hanno separato. Si consulta con i suoi colleghi del cuore, il suo vecchio capo Corso Bramard, ora in lotta con un tumore che lo deteriora lentamente, e con l’agente Isa Mancini, ragazza irruente ora dislocata alla stradale per motivi disciplinari dettati proprio dalla sua aggressività, per quanto giustamente motivata. A loro si aggiunge un ex collega, Luigi Normandia, una figura preoccupante da tratti ossessivi, tormentosi, mistici, direi ascetici, una figura inquieta e inquietante. E grazie a loro, si trovano nuove tracce. E le tracce portano al:
“ Il dark web è tutta un’altra storia. È la parte ultima dell’iceberg, quella profonda, una striscia non troppo grande, dove le acque sono sempre buie e la luce non arriva…un posto dove si sbrigano le faccende che non hanno bisogno di occhi.”
Ecco, qui sta il valore di questo “Una rabbia semplice” di Davide Longo, ed è un bel valore, questa è veramente una bella lettura, non solo deliziosa e rilassante, ben scritta e ben presentata, ma anche in grado di suscitare delle belle riflessioni sull’oggi, sul nostro presente, sul nostro vissuto.
Il che vuol dire sulla tecnologia informatica che in tutto oggi ci pervade e ci invade: che non è una scienza per pochi eletti. Certo, siamo tutti convinti che gli esperti dei computer e dell’informatica sono tutti dei cervelloni, dei geniacci, una specie di scienziati pazzi persi tra numeri ed algoritmi, l’esperto informatico per eccellenza lo immaginiamo come un:
“un uomo tra i trenta e i quaranta, colto, creativo, intelligente, introverso, che sa le lingue e legge molto” In realtà, l’informatica e il web non celano alcun mistero insormontabile, li maneggiano efficacemente soprattutto i ragazzini, figuriamoci, e comunque tutta la tecnologia si riduce al fatto essenziale che ci fornisce solo una cosa banalissima come il web, l’enorme mare che tutti ogni giorno navighiamo con piacere e senza timore, o quasi, che tutti conosciamo o presumiamo di conoscere e padroneggiare, quando invece quasi tutti in effetti di esso non sappiamo che la punta dell’iceberg.
Certo, poi almeno per sentito dire abbiamo un’idea anche del deep web, quello davvero pericoloso che non vediamo facilmente, ma sappiamo che esiste, dove si trovano trafficanti di armi, di droghe, di esseri umani, di cose abominevoli come la pedofilia e la pornografia e altro.
Questo deep web provoca il nostro sdegno, la nostra condanna, il nostro biasimo, la nostra censura.
La rabbia…la rabbia no. Quella è riservata ad altro, al dark web
Il dark web è il fondo assoluto, appena un centimetro sopra la melma del fondo.
Esattamente come sul fondo degli oceani, su questo altro fondale vivono figure e creature di cui non abbiamo conoscenza diretta, pesci dagli occhi enormi che occupano la totalità del muso per cercare di carpire inutilmente una stilla di luce, che a quelle profondità non arriva mai.
Creature cieche, che però sanno muoversi, sono nel loro habitat.
Ci appaiono mostruosi, ma sono semplicemente adattati all’ambiente.
Anche noi appariamo mostri ai loro occhi. Essi sono come noi: se l’ambiente è nocivo, sono nocivi. Se sono grandi, mangiano il piccolo. Se sono bambini, giocano: perché è il gioco che insegna le cose della vita, i bambini giocano alla guerra perché imitano, ma non sono consapevoli di quanto male e quanto dolore arreca la guerra. Ecco, succede questo nel dark web:
“Lo sai che in Siberia si sono formati dei buchi di centinaia di metri nel terreno? Voragini di cui non si vede il fondo. Le chiamano le porte dell’inferno…quei buchi sono dovuti al surriscaldamento. La temperatura si alza, lo strato di permafrost si scioglie, la terra che lo ricopriva non ha più sostegno…lascia perdere il buco…cerca di capire perché la temperatura si alza.”
Vincenzo Arcadipane nella sua normalità, con il banale buon senso lo capisce, non gli interessa il dark web in sé e per sé, comprende nella sua interezza che ciò che accade nel dark web è una semplice conseguenza dei guasti fuori del web.
“…è colpa della noia, della rete, o del fatto che abbiamo buttato tutto?”
Sono queste storture esterne quelle che portano i cacciatori a risalire in superficie per dare prova di sé, mettersi in gioco, accumulare punti che diano un senso al loro ingegno.
Tuttavia, la vita non è un gioco, e Arcadipane sa quello che deve fare, è inutile gettare le reti a strascico per setacciare il fondo, il suo compito, il suo dovere, è dare la caccia e fermare una volta per sempre il gioco nefasto, bloccare i “ surface hunters”, i cacciatori di superficie.
Lo fa con calma, con efficacia, al meglio che gli riesce, assaporando un sucai, ha zucchero in superficie, dolcifica e quindi semplifica un po' le cose, tuttavia lo fa con rabbia, quella è necessaria, sempre le vittime innocenti suscitano rabbia. Una rabbia semplice, anche se è proprio quella più letale, però semplice. Una rabbia semplice, adatta alla banalità del male. E della rete.