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Cavalli e gioielli per il tenente Roversi
Quarto appuntamento con il tenente dei carabinieri Giorgio Roversi, amante di Tex Willer e della cioccolata “scorza” della Majani.
Ne “Il Delitto di Saccargia” l’avevamo lasciato alla vigilia del capodanno 1962, angosciato dalla notizia che la sua amica d’infanzia Flavia Lanzarini era stata arrestata per sospetto omicidio, esattamente come già era accaduto, tre mesi prima, a Roberto della Grada, il suo fidanzato. Così, richiesta una licenza “per motivi familiari” al suo comandante, lo ritroviamo a Bologna, a risolvere il caso che vede coinvolti i suoi amici.
A dargli una mano c’è, come al solito, l’amico Gualandi, capitano in congedo, che lo ha accompagnato sotto le due torri assieme alla moglie Brunilde. Purtroppo per Roversi muoversi nella città che lui ben conosce, sarà assai difficile. Ufficialmente si trova lì solo per stare vicino alla madre e il Commissario Rambaldi, che già aveva preteso il suo trasferimento a Sassari, gli ha proibito tassativamente di mettere il naso nelle indagini, con la minaccia di farlo deferire al Tribunale militare. Per fortuna, come vice commissario c'è suo cugino Mauro Guerzoni, che chiuderà più di un occhio sulle molteplici iniziative estemporanee di Roversi.
La vicenda si rivelerà assai ingarbugliata: rapidamente il tenente scoprirà che connessi agli omicidi ci sono un furto di gioielli di dubbia provenienza, una combine all'ippodromo per far vincere un brocco, il cavallo di Alfonso della Grada (padre di Roberto), e, forse, anche losche trame per impedire alla legittima erede di un lontano, oscuro principato di rivendicare titolo ed eredità. Nel frattempo altri due morti si aggiungono alla lista. Inoltre molte delle persone coinvolte agiscono nell'ombra camuffandosi sotto false identità. Alla fine, dopo una lunga serie di colpi di scena, non mancherà la conclusione lieta e appagante.
I tuffi negli anni ’60 che ci fa fare Sanna sono sempre piacevoli, tinti come sono di quella dolce nostalgia per quegli anni in cui, forse, tutto era più semplice e umano. In questo caso, poi, l’ambientazione bolognese aggiunge un pizzico di fascino in più per chi è nato all'ombra di S. Petronio e riesce a seguire i percorsi fatti dai protagonisti come se stesse sempre al loro seguito lungo quelle vie di pietra rossa che, nei decenni, poco sono mutate. Come al solito i personaggi sono ben costruiti, simpatici e accattivanti; i dialoghi spumeggianti e realistici, le descrizioni molto accurate.
Tuttavia, questa volta, la trama è davvero troppo arzigogolata, tra intrighi internazionali, imbrogli ippici, eredità misteriose, omicidi “simbolici” e misteriosi mandanti privi di scrupoli, si fa presto a perdersi in un labirinto di storie intrecciate e tra loro aggrovigliate. Lo stile, per quanto sempre fluido, talvolta eccede nell'uso del dialogo e talaltra si incarta in lunghissimi resoconti di antefatti davvero astrusi. Insomma, pur essendo sempre una lettura gradevole questo ultimo romanzo è indubbiamente inferiore a quelli che lo hanno preceduto e una sospensione dell’incredulità è indispensabile per accettare alcuni contorcimenti della storia.
In ogni caso le vicende del tenente Roversi hanno un fascino innegabile e non si può fare a meno di perdonare questo piccolo peccato d’orgoglio nell'A. che ha cercato di metter su un cocktail tra la spy story, l’intrigo internazionale e enigma poliziesco a scatole cinesi. Però, in futuro, sarebbe meglio tornare a vicende più ruspanti, ma anche più consone a quel periodo semplice e immediato e alle corde del narratore.
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Per la pagina del pignolo non posso esimermi dal fare qualche tiratina d’orecchi all'A.
Normalmente la sua ricostruzione storica degli anni ’60 è ineccepibile e raramente ho notato scivoloni nell'ambientazione. Questa volta, però, ho trovato due evidenti falsi storici.
Innanzi tutto il turno settimanale di riposo per gli esercizi commerciali al giovedì pomeriggio è stato introdotto a Bologna solo dal 1971. All'epoca in cui si svolgono i fatti non era neppure in “mente dei” e questo errore è piuttosto grave, poiché riguarda un elemento essenziale nella vicenda investigativa. Un secondo scivolone, altrettanto evidente, riguarda la collega poliziotta del vice commissario Guerzoni. La dottoressa Sofia Montanari nel 1960 non solo non avrebbe potuto mai ambire alla Magistratura (solo con una legge nel 1963 alle donne fu dato l’accesso alle cariche giudiziarie), ma neppure poteva diventare agente di polizia, visto che, per quello, si dovrà aspettare una norma del 1981. Quindi quel personaggio chiave non poteva neppure esistere. Va bene concedersi qualche “licenza poetica”, ma non si può piegar troppo la realtà alle necessità sceniche.
Infine una domanda priva di risposta: perché impegnare i gioielli (certo di dubbia appartenenza, ma non di origine furtiva) presso un “ricettatore”, quando potevano essere portati a un normale Banco dei Pegni o, a tutto concedere, a chi prestava denaro a usura? Mah…