Dettagli Recensione
Alessandro Gordiani e i crimini di sangue
«Tanto era lenta e impacciata la giustizia dei tribunali, tanto era feroce e inesorabile quella in vigore da sempre in quelle terre. […] La vendetta era lenta ad arrivare, doveva percorrere lunghe distanze e si muoveva sopra un carro trainato da buoi, quindi il più delle volte poteva impiegare molto tempo per raggiungere la destinazione finale. Ma arrivava sempre, puntuale e implacabile come la morte, con cui viaggiava a braccetto.»
Fonni, alta Sardegna, tra le alture e il silenzio dei suoi abitanti, tra le usanze e i codici non scritti. È qui che viene applicato il codice barbaricino, un codice silente, una consuetudine non scritta che permette di attuare anche la vendetta più severa per il torto che è stato subito. E questo lo sanno bene le famiglie Rutzu e Serra, rivali da generazioni e destinatarie nonché prime adottatrici di questa forma di rivendicazione che fin troppo le ha viste protagoniste.
Ed è proprio in questo contesto che nasce l’ennesimo pretesto per la vendetta, che nasce l’ennesimo pretesto di lite. Perché Davide, il figlio maggiore di Vittorio Rutzu con un gesto spropositato mette a repentaglio la quiete della famiglia e desta nuovamente le ire della rivale. Vittorio e la moglie sono preoccupati, temono ritorsioni e quando il figlio minore Gregorio viene rinvenuto privo di vita a seguito di un colpo d’arma da fuoco in pieno petto, ecco che la storia sembra ripetersi quasi come se si stesse mettendo in scena una tragedia shakespeariana. Ad aggravare la situazione il fatto che il figlio Davide, fratello maggiore del defunto, dichiari di aver visto allontanare dal luogo del delitto un uomo caratterizzato da una zoppia fin troppo nota nel paese. Stante la dichiarata amenità tra famiglie e le precedenti minacce a seguito dell’affronto del figlio più grande, i sospetti si tramutano in un arresto nei confronti di Serra, recidivo e senza ombra di dubbio il più plausibile dei colpevoli. Che sia stato davvero lui? Che i sospetti siano davvero fondati? Che sia stato applicato il codice barbaricino anche nei confronti di un così giovane uomo?
Della difesa di questo viene incaricato Alessandro Gordiani che in quel della sua Roma stava già pregustandosi le prossime ferie agostine. Avvocato penalista di gran fama e capacità, egli appartiene a quella cerchia di legali che ben seleziona i suoi clienti rifiutando di assumere la difesa di coloro che sono per definizione indifendibili. Ecco perché accettare questo caso è per lui così difficile: non è solito assumere la difesa di chi uccide a sangue freddo ragazzi e bambini. È il dubbio a convincerlo. Il dubbio scaturito da quelle investigazioni portate avanti in parallelo con quelle della polizia, è la scoperta del fatto che forse qualcun altro potrebbe aver avuto interesse a mietere questa morte per difendere il proprio onore e nome.
Con una penna rapida e fluida Michele Navarra destina il suo pubblico di lettori di un giallo giudiziario costituito da una trama solida e capace di incuriosire il conoscitore. L’opera giunge al suo destinatario senza difficoltà grazie in particolare a uno stile narrativo che per sua definizione è evocativo e particolarmente empatico. Se da un lato è la storia a incuriosire, dall’altro è il clima quel che più giunge al lettore, un clima di omertà, paura, silenzi ed eppure consapevolezza che permea l’atmosfera del paesino rurale in quella certezza di poter da un momento all’altro dire o fare qualcosa di sbagliato.
Ottima inoltre la contestualizzazione giuridica nonché quella inerente al codice barbaricino che nulla risparmia. Un titolo che giunge a un epilogo che funziona e che ci ricorda che non sempre esistono vinti e vincitori perché talvolta a perderci sono semplicemente tutti.
«Eppure, lui paura ne aveva, eccome. Quella sensazione d’inquietudine di fondo, quel senso di turbamento che fino ad allora si era manifestato in forma quasi indefinita, come un fantasma privo di contorni reali e tangibili, aveva preso corpo, si era improvvisamente materializzato accanto a lui nel momento in cui Serra lo aveva guardato e, anzi, l’aveva addirittura fissato con quella che gli era sembrata una strana mistura di malevolenza e rassegnazione.»