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Prova d’orchestra
Si suole dire che tre è il numero perfetto, forse perché dopotutto è una cifra che simboleggia, in estrema sintesi, il senso dell’esistenza di ognuno, la nascita, la fine, e quanto esiste tra i due estremi.
L’inizio quindi da un lato, la conclusione dall’altro, e il durante al centro, quello che è il più importante di tutto.
Perché è l’intermezzo che costituisce il vissuto trascorso, ciò che è stato costruisce il passato, questo conduce al presente, a sua volta si ripercuote nel futuro.
Quello che è nel mezzo è il remoto da dove è iniziato tutto ed il contrario di tutto, con il suo scorrere determina la fine.
Tre è il numero perfetto, quindi, ed è anche l’emblema, il simbolo, che ricorre in questo romanzo già dal titolo: il racconto di un accidente usuale nella Roma odierna, un delitto passionale.
Un omicidio, anche semplice e banale, perché presumibilmente con tutta evidenza istintivo per decisione improvvisa e rabbiosa, d’impulso, neanche premeditato.
Sono in genere quelli più semplici da motivare e chiarire, assicurandone alla giustizia i colpevoli, investigando nell’immediato tra quanti più vicini alla vittima.
Non un giallo misterioso e impenetrabile, quindi, questo libro, e tutt’altro che un mistero, aggiungerei, ma una bella prova corale, una prova d’orchestra.
Un racconto che prende a pretesto un delitto, un crimine neppure particolarmente efferato, per di più commesso utilizzando come arma del delitto, guarda caso, un terzo di una scultura bronzea, un manufatto artistico rinvenuto sulla scena.
Il senso di atroce sta tutto solo nella vittima, perché è una barbaria ai danni di una giovane e bellissima ragazza, piena di vita, di luce e di colori, di interessi, di preparazione e di cultura artistica, un astro nascente negli ambienti dell’arte della capitale.
La giovane è qui pervenuta dalla provincia, decisa a concretizzare i suoi sogni e a conquistarsi il suo personale, e sfolgorante, posto al sole, una giovane così bella e struggente da potersi definire lei stessa una tela incantevole, di quelle con soggetti diafani, dolci e struggenti, come una piccola fiammiferaia, e come quella esile, fragile, adorabile.
E bersaglio, preda, sacrificio, come spesso divengono soggetti così.
Tre sono i personaggi principali, i protagonisti unici, per prima il poliziotto che indaga sul crimine, quindi il maggiore sospettato dell’omicidio, per inciso l’amante della vittima, e la moglie di quest’ ultimo. All’apparenza il classico triangolo: lui, lei, l’altra.
Quello che rende davvero insolito, atipico e singolare il romanzo, e allo stesso tempo delizioso, di gradevole lettura e attraente per l’intreccio e la struttura, il particolare che gli conferisce la cifra giusta, sta in un altro trittico ancora, quello degli autori.
Un trio di autori, di quelli già noti, e non come giallisti, ma come solisti. E di gran classe.
Cristina Cassar Scalia, Giancarlo De Cataldo e Maurizio De Giovanni, tre voci tra le più calde del nostro Sud, tre autori, oserei dire tre cantautori, si sono seduti insieme ad un pianoforte, ciascuno con la propria sensibilità ha trascritto sulle righe orizzontali di un foglio di musica delle note, quelle più consone alla propria indole di affabulatori, ne hanno ricavato così insieme un originale spartito, una trascrizione a tre per canto, chitarra e pianoforte, dando luogo ad un componimento musicale a tre fiati, dal timbro caldo, tocco arioso e modulazione intonata.
Ognuno di loro tre infatti, autore ciascuno di due capitoli sui sei totali del romanzo, ha elaborato una propria sinfonia, si è dedicato ad un frammento del melodramma ed a descrivere, approfondire, far risaltare un personaggio principale, cesellandolo con le note, ricavandone frammenti di una multiforme personalità, un articolato mosaico musicale che poi tutti e tre insieme si fondono in una unica concorde melodia, vanno mirabilmente ad incastrarsi con quelli degli altri, ricavandone infine una canzone epica e sonante insieme.
Non è da tutti; ci riescono con difficoltà coppie di scrittori di chiara fama come Fruttero e Lucentini, per esempio, ma scrivere all’unisono a tre non è per tutti, riesce davvero arduo incanalare le note in un fluire unico e armonico, altissimo il rischio di stonare, una bella stecca davvero.
A loro tre invece riesce: non un capolavoro, ma una simpatica e ben curata lettura si, senza dubbio.
E volete definirli giallisti? Assolutamente: sono tre scrittori, e di quelli bravi.
Fatti i dovuti distinguo, per intenderci questo non è un romanzo a sei mani, è un concerto di tre tenori, non si esibiscono alle terme di Caracalla come Pavarotti, Carreras o Placido Domingo, e però nessun dorma in ogni caso, loro tre insieme come quelli fondono mirabilmente le loro voci in sintonia senza mancare un’entrata o un accordo, dando luogo ad una prova d’orchestra, non un melodramma ma un’aria, un accordo, un’intesa fantastica nella scrittura a tre.
Domani vincerò si traduce per loro in oggi scriviamo vincenti insieme.
Ognuno degli autori rievoca l’inizio delle storie personali dei protagonisti principali, ne esamina il loro svolgersi, l’evolversi dei fatti, le conclusioni pervenute e conclude con chiusura multipla, perché la verità delle umane vicende non è mai univoca, ma spesso oserei dire tripla.
Insolita, controversa, manipolata.
Giancarlo De Cataldo, in virtù dei suoi trascorsi di magistrato, ci racconta il suo Davide Brandi, dà prova della sua abilità giuridica e di letterato, delineando a chiari tratti la figura del poliziotto incaricato delle indagini, scafato, esperto e competente di metodi e procedure, ma non solo, anche di movimenti adeguati agli ambienti, attento alla carriera e a non commettere passi falsi o politicamente scorretti, sensibile e disincantato ad un tempo, delineato nelle linee con realismo e obiettività di chi conosce uomini e atmosfere della giustizia, esternandoli filtrati dalla propria sensibilità di scrittore.
Maurizio De Giovanni presta voce e ci offre visivamente tratti, figura e l’intimità caratteriale di un protagonista crudo, duro, cinico, quello di Marco Valerio Guerra, il nome di un condottiero ed un cognome che suggerisce conflitto. Nomen omen, il destino nel nome, mai nome fu più azzeccato.
Trattasi dell’amante ufficiale della vittima, il maggior indiziato dell’omicidio della giovane gallerista, un imprenditore di successo, uno di quei mammasantissima dell’economia nazionale, un uomo che si è fatto da solo, con fatica, inflessibilità, rigore, disciplina, e a caro prezzo.
Perché la vittoria, diremmo meglio gli assoluti trionfi in ogni campo, professionale, sociale, di conquista di stratosferico potere economico, si riflette di converso nella situazione difficile, angosciosa, dolorosissima in cui si dibatte la sua anima tormentata e perennemente insoddisfatta, che le durezze dell’esistenza belligerante hanno ridotto ormai a nulla più che un grumo di roccia, intangibile finanche alla lama di un diamante.
Inaccessibilità necessaria, perché ne va dell’esistenza stessa di tutto quanto costruito: una minima crepa, ed è la fine, perché da una crepa può non passare altro che una lama di luce, ma la luce è di per sé sufficiente per la catastrofe. Specie se la fonte della luce è una fiamma di sentimento.
Cristina Cassar Scalia cesella, da donna a donna, tutto l’universo femminile di Carla Santucci in Guerra, la moglie dell’imprenditore. Una donna figlia di un imprenditore arricchitosi con il suo lavoro e però di stampo plebeo, giusto che siamo a Roma, quindi un paria sociale per estrazione ed interesse economici. Con il matrimonio, Carla indossa con soddisfazione l’ambita veste patrizia maggiormente consona al suo charme ed al suo livello, riscatta il suo nome e sale diversi gradini sociali con il matrimonio con l’allora semplice imprenditore rampante Marco Valerio, al quale serve giusto il suo patrimonio per lo slancio finale verso l’empireo economico.
Un matrimonio di convenienza, forse, ma Carla è una donna tosta, decisa, determinata, forse anche innamorata, e l’amore, come la vita di coppia, non ha mai una sola faccia, può averne più di una, due o anche tre.
Tre voci, tre scrittori mettono insieme una storia: poiché le storie sono fatte di persone, ognuno dei tre offre il proprio contributo con un corrispondente personaggio.
La storia scivola bene, suona meglio, scorre fluida, è piacevole a leggersi, non una costrizione editoriale, ma una prova di abilità e di professionalità.
Che funziona, grazie alla professionalità dei tre, che si amalgano bene, al meglio.
Perché ognuno di loro si fa in quattro, in tre cioè, pardon.
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