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Chi sono io?
«Nessuno lo può salvare, perché, da quando è diventato invisibile, lui non esiste, ma chi lo penserà con nostalgia, rammarico o solo un poco di affetto? Il pensiero lo umilia, lo strazia, lo annienta, gli squassa il cuore più dell’immagine dell’occhio strappato, prima che i suoi ultimi minuti si sbriciolino in una manciata di secondi.»
Corpi straziati, corpi sepolti. Corpi privati di quella libertà che l’essere umano fa di tutto per rendere propria, corpi costretti a specchiarsi, a guardarsi dentro, a fare i conti con un passato celato in un tempo inesorabile che ha fatto il suo corso. Uomini e donne che vengono rinvenuti privi di vita in circostanze molto particolari, in sepolcri appositamente scelti per loro, in teatri all’interno dei quali è stato allestito un palcoscenico ove la pièce possa avere luogo indisturbata e con essa la fine predestinata. Cadaveri rinvenuti e a cui Enrico Mancini, insieme alla sua squadra, dovrà in primis dare un nome e una identità e poi rendere giustizia trovando l’artefice dei delitti. Il modus operandi del reo è però particolare rispetto ai casi del passato. Risponde tanto a un profilo organizzato quanto disorganizzato, agisce con “cura” prima e con impeto dopo, muove tessendo una tela di ragno che non sembra essere riconducibile a uno schema dal carattere inequivocabile. Ad una indagine che è una corsa contro il tempo si contrappone un Enrico Mancini che ha iniziato a fare i conti con il proprio passato e che ha iniziato a guardarsi in quello specchio che è l’animo.
«A volte funzionava così, bisognava partire dall’esterno per cambiare l’interno, calcare un po’ la mano.»
Eh sì, perché elemento cardine attorno al quale ruota l’intero ultimo volume delle avventure del personaggio creato dalla penna di Mirko Zilahy è proprio questo: lo specchio non solo dal punto di vista di immagine riflessa quanto di ricerca del proprio io, di identità. E se Mancini si propone al lettore come un uomo che sta ricominciando a vivere dopo un evento traumatico dettato dalla perdita di un affetto caro, per giungere completamente allo stadio della guarigione dovrà lavorare su se stesso e al contempo scendere giù, negli inferi. In quel pozzo nero, in quella discesa che è chiamato ad affrontare ogni volta che il lavoro lo pone di fronte all’oscurità più profonda di coloro che deve trovare e fermare onde evitare che altre vittime innocenti vengano mietute.
«Lo sbaglio mortale è stato decidere di esistere per qualcun altro. Io vivevo per specchiarmi in mia madre. In lei sola mi riconoscevo, falso come un riflesso. Lo comprendo solamente adesso che non si può usare nessuno, malgrado l’amore, per scoprire chi siamo. Ma sono convinto che ormai lei questo lo sappia.»
È l’identità più intima, la luce che hanno dentro quel che deve ricercare. È la risposta alla domanda “Chi sono io?”, quella che deve trovare.
«Quello che vorrei dirvi è che la luce dei loro occhi, quello che hanno dentro, è fatta di buio, quel barlume opaco è l’identità più intima, l’unica cosa che conta quando invece di loro non resta che un nome, un corpo, un ruolo. Ma chi erano davvero? E soprattutto… Chi sono io?»
“Così crudele è la fine” è un terzo capitolo delle avventure romane del celebre commissario che non delude le aspettative e che anzi pone il lettore innanzi a molteplici riflessioni sottese. Perché oltre che al dogma identitario, l’autore costruisce una trama che si snoda toccando anche tematiche di grande attualità quali il razzismo, la discriminazione, la violenza, l’adozione, l’infanzia, la solitudine, la burocrazia, la perdita sempre maggiore dei valori in una società la cui piega presa non è minimamente rosea.
Questo e molto altro è “Così crudele è la fine”, un titolo completo, lineare, perfettamente costruito e naturale e logica evoluzione dei precedenti episodi. Da leggere, gustare e divorare.
«Ci sono parole che hanno un significato, che rappresentano un’idea, un pensiero, una cosa. Poi ci sono nomi che si pronunciano come si evocano i fantasmi, per pura fede, o necessità.»
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