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Enrico Mancini
«È da un po’ che leggo e rileggo questi classici della letteratura… diciamo poliziesca. Li leggo con un occhio a Jung e Freud. E sono sempre più convinto che, come in quelle opere, la struttura della menzogna sia necessaria per ricostruire il mondo finzionale del criminale. Soprattutto se ci troviamo di fronte a un assassino seriale. Menzogna come immaginazione, insomma. Immedesimazione.»
Enrico Mancini è il migliore dei profiler sulla piazza romana; eppure, negli ultimi mesi non è più lo stesso. Si è come perso, si è come lasciato trascinare nel baratro, si è come lasciato trascinare dall’ombra. Ciò perché è venuta a mancare lei, la donna della sua vita, la sua compagna di sempre, la sua energia e il suo pilastro; Marisa. Ma non c’è tempo per recuperare, per attendere l’elaborazione del lutto, un omicida seriale ha cominciato a mietere vittime, tutte con un modus operandi molto particolare e una firma lasciata all’interno del corpo in modo e in un luogo sempre diverso. Seppur all’inizio il commissario rifiuti l’evidenza, preferisca indagare sul caso di scomparsa avente ad oggetto l’oncologo Carnevali, alla fine vi si deve arrendere, non ha scelta. Troppe sono state le morti, troppi gli occhi che sono rivolti sul corpo di polizia, troppe le risposte che vengono richieste dai piani alti che esigono quel colpevole. Da qui prende forma la squadra che trasferendosi nel covo inizia a lavorare al caso e a ricostruire passo passo quella che è la mente del criminale che sta muovendo le fila di questo tetro spettacolo. Perché soltanto così è possibile comprendere le sue ragioni, anticiparne le mosse, fermarlo.
«Il male è squilibrio, un buco nero che nasce dal nulla e attira stelle, pianeti, satelliti, mondi, per inghiottirli tra le spire di un gorgo buio come la pece.»
Primo capitolo della trilogia dedicata al personaggio di Enrico Mancini, “È così che si uccide” è un perfetto noir che conquista il lettore per trama solida, protagonisti strutturati e ben caratterizzati, mistero da risolvere e stile fluido e accattivante che tiene letteralmente incollati alle pagine. Se da un lato, infatti, a conquistare il conoscitore è l’enigma che ci viene proposto dallo scrittore, un arcano che porta a ricomporre e scomporre il puzzle insieme alla squadra stessa, dall’altro quel che affascina è anche l’accurata ricostruzione tecnica che coinvolge e appassiona dal punto di vista dell’aspetto criminologico e investigativo. I confronti tra maestro e allievo, i confronti con la squadra, i rilievi, i fondamenti radicati nei principi della scuola forense, arricchiscono il panorama del titolo e ben si bilanciano con la psicologia dell’omicida che è quella di un uomo che agisce con cognizione di causa, metodo, precisione. Non si tratta di un mitomane né di un assassino d’impulso quanto di un killer che agisce in virtù di un disegno più grande che chiede di essere attuato e che vedrà il più inaspettato degli epiloghi.
Un altro grande merito di Zilahy è quello di riuscire a scandagliare l’animo umano nelle sue ombre più profonde: chi legge è chiamato a guardarsi dentro, ad interrogarsi, a chiedersi perché, a porsi domande, a cercare risposte. Risposte che non sempre esistono o possono esistere.
Un elaborato corposo, godibilissimo, capace di conquistare i cuori dei più appassionati del genere che non. Un componimento che incuriosisce, avvince, spinge ad andare avanti e avanti. Un esordio, al tempo, di tutto rispetto e che in alcun modo può – e poteva – passare inosservato.
«Marisa viveva come se fosse il personaggio di un romanzo e fosse perfettamente cosciente di esserlo. È tutto finto, ma dobbiamo far finta di crederci, convincerci ogni giorno che ne vale la pena, altrimenti è la fine. Troviamo la distrazione giusta da cui sia impossibile distoglierci, e andiamo avanti. C’è chi legge, aveva accennato a se stessa, chi lavora duro, chi mette su famiglia e chi acchiappa i cattivi dei film… aveva sorriso ancora. Le avevano fatto male tutte quelle letture, lui glielo diceva, e non scherzava affatto.»